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La Repubblica dei poveri

Quella che è ormai una certezza per tutti, adesso ha avuto anche una certificazione dall’alto. A distanza di ventiquattr’ore, prima il governatore della Banca D’Italia, Mario Draghi, poi il presidente di Confindustria, Montezemolo, ci hanno raccontato, dall’alto dei loro scranni e dei loro stipendi, che se noi non riusciamo ad arrivare alla fine del mese la colpa non è solo nostra o dell’euro al quale non ci siamo ancora abituati. E’ che in Italia i salari sono troppo bassi rispetto agli altri paesi dell’Ue.

E siccome non abbiamo soldi, non ne spendiamo neppure, così anche l’economia ristagna, i consumi languono e la produttività ne risente. Per non parlare, poi, del precariato giovanile che paga – parole di Draghi – tutto il prezzo della famigerata flessibilità del lavoro. Una situazione che, come si diceva, appare talmente chiara agli italiani medi da far risultare quasi offensivo che, dopo anni, due dei principali protagonisti dell’economia di questo Paese scoprano lo status quo e lo spaccino come un allarme sociale a cui il governo dovrebbe mettere mano immediatamente, ben sapendo che questo, ora come ora, non è possibile.

Ma chi li dovrebbe aumentare questi salari se non gli industriali? E chi dovrebbe dare un secco taglio alla precarietà del lavoro se non sempre gli industriali, attraverso politiche salariali diverse dal massiccio ricorso alle partite iva? Insomma: perché Montezemolo dice che gli stipendi sono troppo bassi e il massimo che riesce a fare è aumentare di soli 30 euro gli stipendi degli operai della Fiat artefici, senza dubbio più di lui, del risanamento della principale azienda italiana? Spiace, in questa occasione, dare credito a Michela Vittoria Brambilla, la rossa del Cavaliere, che ha invitato, senza troppi convenevoli, il medesimo Montezemolo a “scendere dall’Olimpo per dare un’occhiata al Paese reale, che evidentemente non conosce”. Si fa presto a dire che questo Paese è allo sbando, senza governo da 12 anni, quando si pensa troppo alla politica e poco a fare prodotto. Ma, d’altra parte, la terza settimana non è certo un dramma che attanaglia Montezemolo. I suoi operai, però, sì. Eccome.

I dati parlano chiaro: secondo l’istituto di statistica europeo citato da Draghi, la retribuzione media oraria è, a parità di potere d’acquisto, di 11 euro in Italia, tra il 30 e il 40 per cento inferiore ai valori di Francia, Germania e Regno Unito. Ed è chiaro che, con questi salari, è del tutto inutile pensare di puntare sul benessere e sulla qualità della vita in generale: da noi si punta ancora alla sopravvivenza, non si può pensare certo al superfluo. “La variabile chiave”, secondo il governatore, resta ancora una volta il rilancio della produttività, unico elemento in grado di far aumentare il reddito delle famiglie in modo stabile. Lavorare di più per guadagnare di più, allora? Il problema è che questo non si può fare. Perché - ma questo Draghi non lo dice e neppure Montezemolo - il dato reale è che in Italia il lavoro non c’è. E quando ce n’è un po’ di più, i padroni fanno di tutto per non stabilizzarlo.

Il risultato è la litania di sempre. “La politica economica - ha detto Draghi - avrà successo se li aiuterà a scoprire nella flessibilità la creatività, nell’incertezza l’imprenditorialità”. A pancia vuota si crea male e la mancanza di incentivi verso l’imprenditoria giovane e innovativa fanno sembrare i consigli di Draghi parole vuote. Ci vorrebbero riforme strutturali pesanti, non solo sul fronte delle pensioni, come sostiene la Banca D’Italia (che ha nuovamente invitato ad alzare l’età pensionabile) ma soprattutto sotto il profilo della stabilizzazione del lavoro. Con un governo in stato comatoso e con una classe politica oggi sempre più impegnata alla salvaguardia di se stessa, non ci si può in alcun modo aspettare cambiamenti radicali a breve distanza. Ci si può attendere, ragionevolmente, solo un altro lungo periodo di incertezza. E, intanto, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Che nessuno si lamenti se poi arriva Grillo e il grido di battaglia diventa “vaffaculo”.

Tutto, in fondo, sembra ruotare intorno alla solita questione: la precarietà giovanile. E su questo Draghi una ricetta l’ha presentata: “Occorre un contratto di lavoro che permetta di spalmare i costi della flessibilità su tutti” e non solo sui giovani. Ma comunque per i giovani le prospettive al momento non sono brillanti: “I diplomati o laureati entrati nel mercato del lavoro negli anni più recenti – ha aggiunto Draghi - percepiscono, in termini reali, una retribuzione prossima a quella che ricevevano coloro che entravano nel mercato del lavoro all’inizio degli anni Ottanta e inferiore a quella di coloro che entravano nei primi anni Novanta”. Ma, ha fatto tristemente notare il governatore, “i più bassi salari d’ingresso, in un contesto in cui quelli medi nell’economia hanno continuato anche solo moderatamente a crescere, non hanno schiuso profili di carriera più rapidi”.

E’ come, insomma, se sopra l’Italia ci fosse un grosso tappo che ne blocca lo sviluppo. E di chi è la colpa? Di una classe politica inadeguata, certo. Ma anche - e soprattutto – di una classe imprenditoriale che, a fronte di pesanti aiuti governativi (l’ultimo il cuneo fiscale, valore sei miliardi di euro) non ha fatto corrispondere un allargamento della base del lavoro. Facile e retorico dire, come ha fatto Montezemolo, che “ chi lavora nelle fabbriche ha lo stesso merito degli imprenditori”. Di sicuro, senza gli operai la Fiat non va avanti, mentre senza Montezemolo potrebbe sopravvivere ancora a lungo. Allora, chi conta di più? Chi dovrebbe guadagnare di più se la fabbrica va bene e la produzione si alza?

A parte qualche episodio, di stampo populista e momentaneo, non si è mai avuta notizia di un imprenditore che, a fronte del successo della propria impresa, abbia deciso di dividerne i meriti con chi ha lavorato per raggiungere il record di fatturato. Gli imprenditori, insomma, guadagnano sempre di più, gli operai continuano a guadagnare mille e duecento euro al mese. La Fiat vola, loro non riescono a pagare il mutuo di casa. E cominciano ad arrivare i pignoramenti. Già, perché la nuova emergenza si chiama “mantenere la casa”.

E se lo stipendio serve a sopravvivere fino alla terza settimana, l’aumento del mutuo della casa può rappresentare un dramma per migliaia di famiglie. Le stime, presentate dalle associazioni dei consumatori, hanno tracciato una mappa di ordinaria disperazione per molte famiglie: trovarsi alla porta l’ufficiale giudiziario è sempre più frequente. Con un aumento del 29% rispetto al 2006, è Napoli la città italiana in cui, quest’anno, è stimata la maggiore crescita del numero di pignoramenti ed esecuzioni immobiliari: da 1.320 a 1.690. E nei primi otto mesi del 2007 pignoramenti ed esecuzioni immobiliari nei principali tribunali - da Milano a Napoli, Firenze e Palermo - sono aumentati di circa il 20% rispetto all’anno scorso. In un elenco stilato dalle quattro associazioni si stima che questi atti cresceranno del 27% a Macerata (da 151 a 191), del 26% a Como (da 351 a 442), del 25% a Monza (da 691 a 866), del 22% a Milano (da 1.883 a 2.297) e del 21% a Roma (da 1.510 a 1.827).

E tutto questo accade mentre la politica si scuote solo quando si parla di legge elettorale. Le piazze si riempiono, le risposte latitano, la casta mira solo a salvaguardare se stessa. E Montezemolo a studiare la strada più breve per rubare la leadership del centrodestra a Berlusconi. Non servirà a molto, ma il “vaffanculo”, in questo momento, ci sembra l’espressione migliore.

Sara Nicoli

Tratto da canisciolti.info

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 7:08 PM,

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