Presidente Ciampi, non ci chieda di fare gli eroi
mercoledì 9 novembre 2005
di Domenico Gangemi
Parole di Azeglio Ciampi da Livorno, Presidente della Repubblica. Pronunciate all’indomani dell’assassinio di Francesco Fortugno.
Ebbene, signor Presidente, noi Calabresi, che non la ringrazieremo mai abbastanza per essere venuto fin qui, non reagiremo.
Perché qui dobbiamo continuare a vivere. Qui dove c’è la ndrangheta. Che è un’organizzazione potente, spietata. E intatta, appena sfiorata com’è dal fenomeno del pentitismo. La ndrangheta è forte e radicata, coinvolge, trova facili alleati, garantisce e protegge, ancora riesce a farsi pensare amica. E’ dura da sconfiggere, perché entra nelle case, sorride e porge la mano, lusinga, soccorre a volte – seppure ne chieda sempre il prezzo – e si compone di gruppi di famiglia difficili al tradimento. Qui la ndrangheta sono le persone che incontri per strada e con cui scambi parole e cortesie, qui è forte delle ricchezze accumulate dal niente, qui fa invidia ed esempio. Qui diventa Stato, se ne sostituisce. E questo sta imparando a farlo bene: orami non si accontenta di orientare i voti su persone gradite, ma candida i suoi rampolli, ci prova a farli sindaci, deputati regionali, parlamentari. Ora può, perché li ha mandati a studiare, li ha armati di lingua e del sorriso accattivante, ha dato loro modi che ingannano di rispettabilità.
Signor Presidente, noi non reagiremo se prima non si mostra lo Stato. Che dia segni di presenza, che ci aiuti a liberarci e a crescere, a far cambiare i discorsi dentro le case, nelle scuole, nelle piazze affollate dai disoccupati. Che ci aiuti a spezzare l’alone di protezione e di connivenza, a mutare una mentalità di copertura che è quella dentro cui attecchisce l’idea del delitto. E’ stato troppo spesso indifferente, lo Stato. Non basta che si mostri solo in occasione di morti eccellenti, di casi eclatanti. Deve esserci sempre. E non tapparsi gli occhi di fronte alle fortune che cambiano padrone o a un mondo imprenditoriale in mano a pochi. Smetta, lo Stato, le politiche permissive che ci hanno fatto ritrovare presto liberi i pochi colpevoli scovati, più forti e audaci di prima, rinvigoriti nella considerazione dal carcere.
Sia Stato. E non ci chieda di diventare eroi.
E poi, signor Presidente, l’Italia non è davvero con noi. Con noi ci siamo soltanto noi. Sempre stato così.
Domani, al cedere dei clamori, l’Italia se ne andrà. Come se n’è andata le altre volte. E magari torcerà il muso davanti al TG mentre se ne sta su una comoda poltrona dentro una comoda casa di una comoda città. Noi, invece, crocifissi qui.
Lo abbiamo già visto questo film. Non sono di molti anni addietro certi giornalisti di certi servizi televisivi. Impavidi, ci davano lezioni di civiltà, fustigavano l’omertà, le bocche cucite, bollavano con sarcasmo quanti non avevano avuto il coraggio di farsi intervistare o di mostrarsi, di sillabare un nome, una condanna. Il prode, però, il giorno dopo frapponeva mille chilometri di distanza. Facile essere eroi con il posteriore degli altri. Ci sarebbe piaciuto vederlo restare ancora un mese, solo e senza protezione, nei luoghi dove era stato l’impavido di una sera.
Un vecchio, all’indomani di un delitto eccellente e dell’arresto di un suo paesano, poi rivelatosi davvero innocente, interrogato da un “prode televisivo“ sceso dal Nord su chi comandasse lì e sull’ambiente che si viveva, si fece pensieroso, si lisciò il mento, ciondolò su e giù la testa e disse infine, con voce lenta: “qua il più onesto sono io, e mi merito trent’anni di galera”. Scherzava, naturalmente. Ma che altro avrebbe potuto fare se non glissare la prima e scherzare sulla seconda? Magari il prode pretendeva che dicesse “si, qua l’ambiente è così e così, i malavitosi sono Tizio e Caio, le persone perbene queste altre…”.
Eccola l’Italia. Ci vuole eroi. Ci vuole insigniti di medaglie alla memoria. S’accorge di noi solo quando il boato è troppo forte. E non fa caso alla vita che qui si conduce. E’ un regime di libertà condizionata. Parvenza di libertà. Liberi finchè non si cozza con gli interessi anche minimi dei pochi che decidono i destini di tutti. A tal punto da non poter comprare impunemente un pezzo di terra confinante, né vendere a chi più aggrada, né partecipare agli appalti, né mettere su un’attività. Né, a volte, votare le proprie idee. Tanta ancora la gente che le deve sottomettere al bisogno. Conosco un tale, già attivista del PCI e oggi con Bertinotti, che credo non abbia potuto votare una sola volta il suo partito, perché puntualmente non trovava spazi per negare a uno che con il sorriso gli imponeva di “favorire un amico”.
Finisce che dalla libertà condizionata si decide di passare agli arresti domiciliari. E ci si rintana dentro casa, nulla si fa per progredire, si sogna un futuro altrove, si fa finta di non vedere.
Ecco perché, caro Presidente Ciampi da Livorno, noi non reagiremo. Intendiamo esercitare il sacrosanto diritto di avere paura. Perchè qui siamo impregnati di ndrangheta. E li troviamo ovunque, anche nei cortei antimafia, anche nelle commemorazioni di un vecchio amico dei comuni anni immortali e galantuomo come Ciccio Fortugno. Sono spesso in prima fila, con le facce più afflitte, con la voce che si leva più alta alla condanna. E magari con la fascia di traverso o dietro un vessillo importante.
Coraggio, allora, cominci lo Stato.
E non sia che si debba davvero finire con il rimpiangere i capisbastone di una volta, rincorrere l’idea, sempre più emergente, che almeno a quel tempo una qualche regola c’era e c’era pure a chi rivolgersi per ripararsi da un torto.
Tratto da CALABRIA NEWS
postato da Anonimo; alle 6:58 PM,