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Progetto Incontriamoci: diventare attivisti per la campagna elettorale di Prodi

Facendo seguito alla richiesta fattaci pervenire da Roberta Gallucci - referente per la Calabria del progetto Incontriamoci - pubblichiamo un appello a partecipare a questa iniziativa che si pone come obiettivo di dar seguito allo spirito delle Primarie, moltiplicando sul territorio le occasioni di partecipazione e l’impegno delle persone che credono nel progetto riformatore di Romano Prodi.
Per chi, come noi, condivide le idee di cambiamento proposte da Romano Prodi, far parte di un progetto che metta di nuovo il cittadino al centro delle scelte (come accaduto alle Primarie) e' motivo di orgoglio. Per questo e' nato "Incontriamoci", non una community, ma una comunita' reale che vuole impegnarsi, conoscere, discutere senza i filtri di un sistema mediatico "imbarazzante". Se ci credi anche tu, registrati, su http://www.incontriamoci.romanoprodi.it/

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:23 PM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XXIV

A Salemi

A levata di sole, il giorno appresso che era domenica, la colonna si mise in cammino. Andava alla testa la 1° Compagnia con Bixio, il quale aveva l'ordine d'avanzarsi fino a Salemi, grosso borgo che fu presto veduto apparire lontano in cima a un monte. Bella vista a guardarlo, ma poveri petti! La salita lassù fu faticosissima e lunga; però, quando le compagnie vi giunsero, provarono un forte compiacimento. Tutta la gente aspettava gridando: "Garibaldi! Garibaldi!" storpiandone il nome con alterazioni strane; ma insomma era un vero delirio. E le campane squillavano a festa; e una banda suonava delle arie eroiche. Via via che le compagnie giungevano nella piazza, si trovavano avvolte da uomini, da donne, persin da preti; e tutti abbracciavano, molti baciavano, molti porgevano boccali di vino e cedri meravigliosi. Ma v'erano anche dei poveretti, troppi! i quali stendevano la mano per dar a capire d'aver fame, facevano certi segni da parer nemici se non fossero stati i loro occhi pieni di umiltà. - E noi pure abbiamo fame! - rispondevano quei soldati stizziti, ma parecchi davano degli spiccioli a quella povera gente, che largiva loro dell'Eccellenza.E Garibaldi qual è? Domandava la folla. Passava Turr. E' questo? No. Passava Carini. Dunque sarà questo? No. Ognuno dei più belli e prestanti tra i grandi della spedizione, per essa doveva essere Garibaldi. Chi sa quale se lo immaginavano! Ma quando lo videro, quei siciliani quasi quasi si inginocchiarono. Oh che viso, che testa, che santo! Egli sorridendo si levò come poté dalla turba, e andò a mettersi al suo lavoro.Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi tante forme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettate, a quell'altra che fosse parente di Santa Rosalia e fin suo fratello.Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le parti, e poi drappelli di insorti come quei della notte avanti, a cento, ducento, trecento; e chi portava lo schioppo ancora a pietra focaia, chi la doppietta, chi fino il trombone. I più erano armati di picche, e tutti insieme, per quelle viuzze a salite e discese ripide, facevano un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivano anche delle grida ingiuriose ai Borboni, e delle canzoni che ferivano il nome di Sofia regina. E spiacevano.Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama.Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! - dicevano i militi, e pareva loro che quel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina superba. E pensavano al nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O bisognava andare a trovarlo? Già, di salir lassù a Salemi per trovar loro, non avrebbe certo tentato. Chi sapeva mai! Ma a buon conto, già dalle prime ore, erano partiti per gli avamposti i Carabinieri genovesi, e più lontano ancora era andata una mezza squadra della Compagnie di Bixio. In quella squadra, comandata dal giovanissimo Ettore Filippini veneziano, si trovavano da semplici militi Raniero Taddei ingegnere e Antonio Ottavi tutt'e due da Reggio Emilia, ufficiali esperti e considerati nelle guerre passate; e così da quella parte il servizio di campo era bene affidato.Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di officina, dove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di Orbetello. Giuseppe Orlando e Achille Campo, coi soli e primitivi strumenti che avevano potuto trovare dai carrai di Salemi riuscivano a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i tre cannoni e la colubrina, rimessa un po' a nuovo anch'essa sul suo carretto, facevano buona promessa che nello sparo non si sarebbero, rimboccandosi indietro, avventati addosso ai loro serventi.E quel giorno fu veduto giungere in Salemi un giovane monaco, raggiante di quell'allegrezza che ognuno ricorda d'aver letto in viso ai sacerdoti del '48. Chi non aveva udito benedire la patria da qualche pulpito, in quell'anno che pareva ancora tanto vicino? E poi appresso, dall'oggi al domani, le chiese erano divenute mute. Pio IX s'era disdetto, e la coscienza delle moltitudini tra la patria e la religione s'era confusa. Pure, a non lungo andare, le moltitudini avevano poi ripreso lume da sé, e poiché la patria doveva a ogni modo rifarsi, o s'erano messe ad aiutar la grand'opera, o se non altro avevano lasciato che si andasse svolgendo, spettatrici non ostili né indifferenti. Ma laggiù nell'isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patriotti.Quel monaco si chiamava fra Pantaleo. Era un bello e robusto giovane di forse trent'anni, che parlava come se fosse uscito allora da un cenacolo miracoloso, donde avesse portato via il fuoco degli apostoli nell'anima e nella lingua. Piacque ma non a tutti. Tra quella gente dell'alta Italia, v'erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l'Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare. Intanto riconoscevano che la parola di lui immaginosa e ardente era una forza di più.Continuavano ad arrivare squadre alla spicciolata, e tra quello scorcio di giornata e tutta l'altra appresso si poté calcolare alla grossa che quegli insorti fossero già due migliaia. Non dovevano essersi mossi da lontanissimo, anzi era da presumersi che fossero tutti della estrema parte occidentale dell'isola; dunque una volta che Garibaldi si fosse avanzato verso il centro, si sarebbe trovato tra popoli che avrebbero fatto levar su il fiore della gioventù pronta a seguirlo. Frattanto quelli che erano già lì si mostravano ossequenti, guatavano con occhio cupido i fucili del Mille, che per quanto meschini erano sempre armi da guerra; ma discorrendo di fatti d'arme, essi così saldi a star al fuoco e a sparar da fermi contro il nemico, essi così destri e fieri nei loro duelli ad armi corte, se sentivano parlar d'attacchi alla baionetta, quasi raccapricciavano. Piovve dirotto tutta la notte tra il 13 e il 14, e poi tutto quanto questo giorno con tedio grande e grande stizza di tutti, perché il mal tempo li faceva indugiar lassù in quell'ozio. Ed essi erano tormentati da un desiderio inquieto di trovarsi alla prima prova, per esperimentare il nemico con cui avevano da fare, e di cui, non sapendo nulla di preciso, sentivano dir le cose più stravaganti. Neppur dagli avamposti avevano segno che fosse in movimento. Che faceva?

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:11 PM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XXIII

In marcia

Alla chiamata non mancava neppure un uomo. Ed era naturale. Ognuno sentiva in sé il pericolo di rimaner isolato; ognuno, per quanto piccolo, aveva coscienza della propria responsabilità. Quasi staccati dal mondo, ridotti per dir così in un campo chiuso dove erano discesi a mettersi da sé, comprendevano, chi più chi meno, molti forse confusamente, che trovarvisi non voleva dire soltanto essere in guerra contro altri soldati ne' quali da un'ora all'altra si sarebbero imbattuti; e che quella che erano venuti a cercare non era una guerra come tutte le altre. Vincere dovevano ad ogni costo, perché dall'isola non potevano più uscire che vincitori; ma soprattutto bisognava non lasciar perire Garibaldi. Era coscienza dunque che ognuno desse tutto sé stesso, e che tutti insieme si facessero amare dal popolo siciliano per virtù e purezza in tutte le azioni. Perciò si udirono fieramente rimproverar dai compagni certi pochi che nella notte s'erano dati bel tempo. Diceva Enrico Moneta da Milano, piccolo soldatino della 6° Compagnia, di diciannove anni, uno dei quattro fratelli che l'anno avanti erano stati Cacciatori delle Alpi, diceva che chi era là per aiutare quel mondo a mutarsi, doveva badare ad essere austero ancor più che prode. - Per di più, quella che stava per accendersi era sotto un certo aspetto una vera guerra civile. E se per quella trafila doveva passare l'Italia a divenire nazione, bisognava badare a farsi onore e a far onore anche al nemico pur vincendolo, per lasciargli possibile l'oblio della sconfitta senza viltà, e facile e pronto il ritorno all'amore.Tali spiriti si venivano formando negli animi anche di quelli che non avrebbero saputo spiegarsi a manifestarli, così come uno quasi senza che se ne avveda si ritempra d'aria pura.
Schierate fuor di Marsala sulla via che mena a Sciacca, stavano tutte le compagnie con gli altri piccoli corpi. Il tempo era bello e fresco, la guazza sull'erbe magre di quello spiazzo pareva quasi una brinata. Il mare dormiva: lontani, già verso l'Egadi, i legni napolitani rimorchiavano il Piemonte. E per tutto era una quiete diffusa, anche nella città che pareva avesse già dimenticato il turbamento del giorno innanzi. Pochi cittadini si aggiravano intorno alle compagnie. Qualcheduno armato di doppietta era là per seguirle. Faceva senso tra gli altri un signore, forse di trentacinque o quaranta anni, taciturno e pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia. Egli di là fino all'ultimo di quella guerra nel Regno, marciò poi, fido alla 6° Compagnia, semplice milite, sempre pensoso e modesto.Una tromba suonò in distanza, poi comparve Garibaldi a cavallo. Indossava camicia rossa, portava i calzoni grigi da generale ma senza le strisce d'argento, e in capo teneva il suo solito cappello dalla foggia che allora si diceva all'Orsini o anche all'ungherese, come glielo hanno poi fatto gli scultori quasi in tutti i monumenti; e gli sventolava dietro un gran fazzoletto annodato al collo. Teneva il mantello americano ripiegato sull'arcione davanti. Dietro di lui cavalcavano il suo stato maggiore e alcuni delle Guide, Nullo tra gli altri, bellissimo nella sua divisa del '59, tutta grigia con alamari neri e galloni da sergente. Pareva col suo cavallo un solo getto di bronzo. Il Missori indossava la giubba rossa da ufficiale con alamari d'oro.Al passaggio del Generale non furono presentate le armi. Egli certe cose non le voleva. Tirò via, guardando le Compagnie molto ilare in viso; poi queste si mossero, fianco destro, trombe in testa e partirono. Quelle trombe suonavano le arie semplici ma pungenti de' bersaglieri di La Marmora; il passo delle compagnie era franco, nessuno si sentiva più mareggiare il terreno sotto, come il giorno innanzi dopo lo sbarco; e quando spuntò il sole cominciarono i canti.A forse un miglio da Marsala, la testa della colonna svoltò per una via traversa che, staccandosi dalla consolare, menava verso l'interno tra vigneti allora già in pieno rigoglio. Passati i vigneti cominciarono gli oliveti, e pareva che quella prima marcia dovesse condurre a vedere meravigliose colture. Verso le undici la colonna fece il grand'alto in una conca, presso una casa bianca, fresca, silenziosa, con a ridosso delle fitte macchie d'olivi vetusti. Là, Garibaldi, seduto a' piedi d'uno di quegli alberi, come se fosse l'ultimo di quella gran Compagnia, si mise a mangiar del pane. Tutta la conca era popolata di gruppi, tutti mangiavano gagliardamente il saporito pane di Marsala; quanto a bere, pei novellini che s'erano imbarcati senza fiaschetta, c'era presso la casa un pozzo, e intorno a questo molti facevano ressa contendendosi un poco d'acqua. Il Generale guardava con certa compassione quei poveri ragazzi: "Poveri ragazzi!" come fu udito dire egli stesso.Ripresa la marcia, spuntato il valichetto del colle in cui giaceva quella conca, la colonna si vide davanti una distesa ondulata senz'alberi, senza case, il deserto. - Come la Pampa! - dicevano alcuni che nella loro vita avevano visto l'America. E in quel deserto s'inoltrò la spedizione, sotto un sole, ah che sole! E che peso i panni! Felici coloro che ne avevano appena indosso tanto da non andare scoperti.E quella prima marcia fu una gran prova, ma nessuno rimase indietro. Eppure c'erano dei giovanetti che ad ogni passo parevano doversi lasciar cadere in terra sfiniti. Ma lo spirito li reggeva, e continuavano a marciare, aiutati anche dai compagni più esercitati che levavano loro fino il fucile, tanto che ricogliessero un po' di fiato.Dove mai si sarebbero fermati?Per quanto guardassero a sinistra, a destra e davanti, nulla, mai un ciuffo d'alberi, mai una casa. Cosa era dunque la Sicilia già granaio d'Italia? Degli uomini pratici di campi dicevano che tutta quella miseria dipendeva dal disboscamento, altri che dai latifondi, dal feudalesimo, dai frati. Il fatto era che quel deserto metteva un senso di sgomento nei cuori. Là sarebbe stato bello trasformarsi in un esercito di legionari alla romana con la marra, la vanga, gli aratri di Lombardia! Ma là non c'erano le acque di Lombardia; anzi non ci si trovava neppure da dissetarsi. E alcune voci intonavano il coro del Verdi: 'Fonti eterne, purissimi laghi...'
*
Finalmente quando già si faceva sera, apparve lontano un corpo di casa massiccio e scuro, su di un rilievo un po' più spiccato di quella campagna. Era il maniero di Rampagallo, quello che si chiamava bellamente feudo, come se là il feudalesimo fosse ancora una cosa viva. E tutto, dai muri massicci, alle finestre, alla gran porta, ai cortili dentro, ai contadini che vi si aggiravano, tutto vi aveva infatti una fisionomia d'antichità corrucciata.Le Compagnie si accamparono davanti a quel vasto casamento su di un pendio erboso, che dopo l'arsura della lunga giornata pareva dar un carezzevole senso di refrigerio. A pié dei loro fasci d'arme, mangiarono il loro pane, e in silenzio si addormentarono.Ma i pochi che per servizio dell'accampamento vegliavano, videro di prima notte entrar nel gran cortile di Rampagallo una piccola schiera d'uomini, forse sessanta, condotti da tre o quattro cavalieri, alti su degli stalloni piuttosto che sellati, bardati, con attraverso sulle cosce dei lungi fucili. Gli uomini a piedi erano armati di doppietta, con alla vita la ventriera per le cartucce e qualche pugnale. Vestivano panni strani, parecchi avevano sopravesti e cosciali di pelli caprine, e portavano in capo dei berretti quasi frigi o dei cappellacci a cencio. I loro capi, fratelli Sant'Anna e barone Mocarta, passarono da Garibaldi. Egli fece liete accoglienze a quel primo manipolo che la Sicilia armata gli dava; la scena era quasi da medio evo: pareva proprio che in quelle ore in quel luogo quei signori fossero giunti per prestare l'omaggio a un conquistatore.Ma Garibaldi che sapeva ricevere come un re, nello stesso tempo sapeva parere quasi inferiore a chi gli si presentava, onde quel fascino e quel suo dominio sui cuori, da cui subito quei siciliani si sentirono presi. E uscivano da quel ricevimento, magnificando.

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:30 PM, ,




Le avventure dello Zar Loris, il Diabolico


3. E la luce fu! (Dove mangiano i maiali)

Appena messo sul trono, lo Zar Loris si accorse che mancavano molte cose nel territorio di Montebello.
Allora incominciò a creare i ruffiani e i leccapiedi, per venire osannato e mai contraddetto. Ed egli vide che era cosa buona.
Poi cacciò i giornalisti e i fotografi dal Consiglio, perchè davano fastidio. E vide che era cosa buona.
Dopodichè non volle nominare il Sindaco dei ragazzi, che poteva essere un concorrente temibile. E vide che era cosa buona.
Dopo ancora tagliò tutti i finanziamenti alla Sagra dell'olio, che era fatta meglio delle cose del Comune dello Zar. E vide che era cosa buona.
E poi fece votare un rappresentante dell'opposizione, per disinnescarlo. E l'opposizione sparì del tutto. Ed egli vide che era cosa ottima.
E poi non volle somme di denaro che potevano arrivare dagli Enti esterni, secondo il suo principio dell'Autodeterminazione del suo territorio. E vide che era cosa non buona per le casse del Comune, e incominciò ad accettare i soldi del Pit, della Provincia, della Regione, ed aumentò le tasse, e diede pure ad un avvocato collega un mandato se vi era la possibilità di essere risarciti dei danni causati dal Governo al comune. Lui che era stato contrario e critico alla possibilità di un risarcimento dello Stato per danni al comune. E vide che era cosa buona.
A questo punto, un consigliere dello Zar Loris, in conflitto di interessi, chiede allo Zar: "Signore, manca la luce dove mangiano i maiali!!!" E lo Zar rispose: "E sia la luce!". E la luce fu!
E dove vi erano le tenebre, apparve la luce, che illuminò a giorno tutto il paesaggio. E lo Zar vide che era cosa buona, tanto da inserire quella vallata, prima coperta dal buio più fitto, nelle riprese del film "Dove mangiano i maiali", con interpreti principali: Robert De Niro nei panni di un allevatore di maiali, che si batte al limite delle sue forze per portare la luce al di fuori del paese dove non si vede nulla. Poi la sua donna, interpretata da Sofia Loren, che lo ammonisce sulla inopportunità di portare i pali della luce dove non ci sono le persone, ma soltanto il silenzio. Ma la donna deve ubbidire al marito gradasso e prepotente. Poi il figlio dei due, interpretato dal piccolo musulmano Alì Salam, avuto da una relazione extraconiugale con una donna araba, e costretto a lavorare dalla mattina alla sera nel porcile per dare da mangiare e custodire i porci. Il piccolo poi, nel film, morirà per un'infezione della malattia aviaria. E lo Zar vide che la trama del film era cosa buona.
Poi, stanco delle cose create, si riposò, e vide che era cosa buona...

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postato da Anonimo; alle 10:47 PM, ,




Nuovo elisoccorso: Tutto da rifare

"Appare sconcertante la notizia relativa alla nuova impostazione del soccorso aereo per la Calabria, con l'utilizzo degli elicotteri. Si tratta di una re-distribuzione sul territorio regionale che penalizza altamente la provincia di Reggio e parzialmente quella cosentina. Da un lato può essere utile la presenza di un aeromobile attrezzato al trasporto di pazienti critici fuori regione, con base a Lamezia, vista la centralità del sito; la designazione di Catanzaro e Crotone quali basi per le eliambulanze appare, invece, decisamente priva di ogni logica ed assolutamente insufficiente a coprire, per il soccorso primario, l'intero territorio regionale. Il pressappochismo in questo caso appare sconcertante. Il soccorso primario permette l'immediata disponibilità di una unità mobile altamente specializzata, utile in una regione territorialmente montana, stretta e lunga, assolutamente inadeguata dal punto di vista delle vie di comunicazione, sia per il gommato come anche per quello ferroviario. Il trasporto aereo breve rappresenta una soluzione adeguata e di grandissima utilità per coprire al meglio le cinque province, facendo arrivare il paziente da soccorrere o l'equipe medica, in tempi rapidi, nelle strutture sanitarie coinvolte. Il trasferimento dell'attuale base di Locri priva la provincia reggina di tale importantissima unità di soccorso, non essendo proponibile un soccorso primario da parte delle eliambulanze con basi così lontane. Una situazione paradossale, senza alcuna logica, che priva ulteriormente un territorio già carente di strutture socio-sanitarie per il soddisfacimento delle richieste della popolazione. E' necessario che l'assessore Lo Moro e il presidente Loiero provvedano subito a rimediare. Mi chiedo come mai sia stato possibile arrivare a tale decisione. E' poi noto che tale progetto era stato predisposto dal precedente assessore e mi chiedo se sia mai possibile che la nuova Regione debba riportare in alcuni casi sic et simpliciter, senza alcuna valutazione critica, i progetti dei predecessori. Assalito dal pessimismo qualcuno potrebbe farsi la domanda: valeva la pena cambiare? Io credo di si ma questi provvedimenti non aiutano a convincere gli altri."
E' con queste parole che l'On. Demetrio Naccari (Margherita) accoglie il piano dell'Ass. Lo Moro per la riorganizzazione del servizio di elisoccorso regionale. Parole dure, ma assolutamente condivisibili per chi come i residenti della provincia reggina si vede penalizzato da questa redistribuzione.

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 7:54 PM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XXII

Il proclama

A guardia del porto, se mai dalle navi borboniche sbarcasse della gente, rimasero la 7° Compagnia e i Carabinieri genovesi. Con le loro infallibili carabine, quei genovesi, che, per dir così, davano in una capocchia di chiodo a trecento metri, avrebbero presto levato ogni voglia di sbarcare a chi l'avesse tentato. Da mare dunque Garibaldi non aveva da temere. Da terra sì. Per questo mandò ricognizioni verso Trapani e verso Sciacca, fece uscire dalla città quanto poté più delle Compagnie, fors'anche non si fidando dei vini del paese pei loro effetti sulle teste di quei suoi uomini, i quali in cinque giorni non avevano mangiato che poco biscotto e bevuto acqua di botte quasi imputridita. Per esplorare il paese montò egli stesso sulla cupola della Cattedrale, cui passarono subito ben vicine due granate delle navi che avevano visto gente lassù. Disceso andò al Municipio, e di là disse alla Sicilia la sua prima parola:
"Siciliani!Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosi, accorsi alle vostre eroiche grida, avanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo qui con voi, ed altro non cerchiamo che di liberare il vostro paese. Se saremo tutti uniti sarà facile il nostro assunto. Dunque, all'armi!Chi non prende un'arma qualunque, è un vile o un traditore. A nulla vale il pretesto che manchino le armi. Noi avremo i fucili, ma per il momento ogni arma è buona, quando sia maneggiata dalle braccia di un valoroso. I Comuni avranno cura dei figli, delle donne, dei vecchi che lascerete addietro! La Sicilia mostrerà ancora una volta al mondo, come un paese, con l'efficace volontà d'un intero popolo, sappia liberarsi dei suoi oppressori."
Di questo proclama, affisso alle cantonate di Marsala, furono mandati esemplari alle città vicine, e lontano alle squadre che tenevano i monti. Bisognava che la gran voce andasse, e infiammasse la rivoluzione già quasi vinta. I Marsalesi leggevano e cominciavano a comprendere, coloro che cinque giorni avanti non avevano osato insorgere al grido di Abele Damiani, loro concittadino, adesso pigliavano animo, seguisse poi ciò che potesse, perché con quegli italiani c'erano pur Crispi, La Masa, Orsini, Palizzolo, Carini, tutti dei loro, proprio dell'isola, e tutti già celebri fin dal '48. E poi avevano visto Lui, Garibaldi in persona. Se la colonna del generale Letizia, che il giorno avanti aveva fatto la sua comparsa minacciosa, e se n'era andata credendo di lasciarsi dietro tutto tranquillo, fosse anche rinvenuta; avrebbero avuto da far con Garibaldi, con quei suoi ufficiali facili a riconoscersi per uomini di guerra sul serio, con quella gente un po' d'ogni età ma pratica d'armi e disciplinata, con loro infine e con al loro città che si sarebbe difesa.Anche il popolino pigliava via via confidenza con quei forestieri. Nelle taverne, nelle botteghe dove essi entravano per rifocillarsi e provvedersi di qualche cosuccia necessaria, la gente faceva subito folla. E si tratteneva a sentirli parlare. Come erano buoni e cortesi! Le donne osservavano che molti portavano i capelli lunghi, cosa strana per soldati, e che avevano gli occhi azzurri e le mani e i panni indosso da veri signori. I bottegai ricevevano le monete con su l'effigie di Vittorio Emanuele, mirando e facendo mirare i gran baffi del Re di cui avevano sentito parlar vagamente, domandavano se Garibaldi fosse suo fratello. Davano i resti in mucchi di monete luride e fruste, e facevano tutto gli uni e gli altri con gran fidanza. Quelle non erano ore da inganni.Correvano intanto dei racconti curiosi di particolari minuti dello sbarco, un fatterello seguito qua o là, a questo o a quell'altro di questa, di quella Compagnia. Faceto, nel serio, ma vero, si diceva che appena sceso a terra, un Pentasuglia, pratico del mestiere, era entrato nell'ufficio del telegrafo, dove l'impiegato aveva appena finito di annunziare a Palermo e a Trapani che gente armata sbarcava da due legni sardi. Ripicchiavano appunto da Trapani, domandando quanti fossero gli sbarcati; e il Pentasuglia aveva risposto egli stesso: - Mi sono ingannato, sono due vapori nostri. - Poi, stato un istante ridendo a sentirsi dare dell'imbecille da Trapani, subito aveva tagliato il filo.
*
Dunque la gran notizia era andata, e a quell'ora la avevano già a Napoli nella reggia. Ivi che sgomento e che collera! Se ne aspettavano ben altra. Il giorno 6 avevano saputo della partenza di Garibaldi da Genova, e protestato col telegrafo a tutte le Corti d'Europa contro il Pirata e contro chi lo doveva aver favorito. La mattina del 7, il Re era andato a far le sue divozioni a San Gennaro, e il Governo aveva mandato ordini alla flotta "d'impedire a ogni costo lo sbarco dei filibustieri; di respingere con la forza; di catturare i legni." Poi erano stati quattro giorni d'angoscia mortale. E ora lo sbarco era avvenuto! Ma ancora assai che l'invasore era andato a mettersi dal punto più lontano dalla Capitale! Tempo e spazio per schiacciarlo non sarebbe mancato. Pure il colpo era tremendo.Ancor più tremendo il colpo doveva essere sentito a Palermo, dove il luogotenente del Re, principe di Castelcicala, e i generali e l'esercito avevano così vicino l'uomo temuto. Chi sapeva mai in quale trambusto era la gran città, se anche la popolazione era già venuta a conoscere che il Garibaldi annunziato da Rosolino Pilo stava in Sicilia davvero?Intanto a Marsala bisognava vegliare. Potevano giungere nella notte numerose truppe da Trapani, da Sciacca, dal mare; e l'impresa garibaldina, così ben riuscita nella traversata e nello sbarco, finire là in quella piccola città come già quella di Pisacane a Sapri.Ma la notte passò tranquilla; verso l'alba furono ritirati gli avamposti, raccolte le compagnie e tutto approntato per la prima marcia verso l'interno.

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 2:29 PM, ,




Il nuovo servizio regionale di eli-aviossoccorso sanitario

L'assessore regionale Doris Lo Moro ha presentato alla stampa il servizio regionale di eli-aviossoccorso sanitario
L'assessore alla Salute, Doris Lo Moro, ha presentato oggi alla stampa il progetto per la realizzazione del servizio regionale di eli-aviossoccorso sanitario. "La prima regione a dotarsi di questo servizio - ha detto l'assessore alla Salute - che si fonda su un obiettivo preciso: dare sicurezza e qualità alla cittadinanza". Puntando su una nuova filosofia d'intervento "che si prefigge - ha puntualizzato Doris Lo Moro - non solo l'assessorato, ma tutta la Giunta Loiero". "L'emergenza soccorso - ha aggiunto Lo Moro - è oggi di vitale importanza. È necessario avere la tranquillità e lo stesso grado di sicurezza di essere soccorsi anche se ci si trova distanti da un ospedale. Per questo puntiamo all'attuazione di un sistema regionale di elisoccorso. Oggi presentiamo la prima fase di questo progetto che riguarda la predisposizione del bando di gara per l'aggiudicazione dell'appalto-concorso (che consente anche di apportare modifiche in corso d'opera) finalizzato alla realizzazione del nuovo servizio sanitario di aliaviosoccorso". La prima fase dovrebbe concludersi entro il 30 giugno prossimo. La seconda fase riguarderà la localizzazione di circa trenta piattaforme di atterraggio, la terza i mezzi su gomma con un 118 organizzato su tutto il territorio regionale. Il nuovo servizio sanitario regionale, che di fatto sostituirà i tre elisoccorsi di Cosenza, Lamezia Terme e Locri, ha una durata di sei anni. "Un periodo - ha detto l'assessore Lo Moro - né breve, ne lungo: un tempo ragionevole per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi". Il progetto è stato redatto da una commissione composta dal presidente Giancarlo Atza, ingegnere aeronautico, dal generale di squadra aerea dell'aeronautica militare, Pasquale Garriba e da Tommasina Pelagi, Bruno Zito e Eliseo Ciconte. L'ingegnere Atza, anche progettista del servizio, ha fornito alcuni dati tecnici del progetto di eliaviosoccorso. In sostanza, gli aeroporti di Lamezia Terme e Crotone, situati in zona baricentrica rispetto ai litorali, saranno utilizzati per i due aeromobili ad ala rotante. In servizio, ventiquattro ore su ventiquattro, ci sarà anche un aeromobile. Il veivolo ad ala fissa, comunque, potrà utilizzare anche gli aeroporti di Reggio Calabria e Scalea. Inoltre, delle piattaforme di atterraggio saranno predisposte in corrispondenza degli ospedali di Catanzaro, Reggio Calabria e Cosenza. (p.g.)
Comunicazione Ufficio Stampa Giunta Regionale

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:38 PM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XXI

Lo sbarco
E poco appresso il Piemonte imboccava il porto, e vi si andava a posare in mezzo come in luogo suo. Bixio, nella rapina dell'animo tempestosa, lanciò il Lombardo come un cavallo sfrenato, andasse pure ad investire, a spaccarsi, magari a sommergersi, tanto meglio! Così, una volta sbarcati, quelli che vi stavan su avrebbero capito che non v'era più via di ritorno. E si fermò così fuori del molo destro, a poche braccia da quella riva. Era il tocco dopo mezzodì. Nessuna poesia potrà mai dire l'anima di quella gente in quell'ora.
Ecco il momento degli uomini di mare. Benedetto Castiglia, capo della marineria da guerra sicula nel 1848; capitano Andrea Rossi da Diano Marina, capitan Giuseppe Gastaldi da Porto Maurizio, Burattini, Assi, Sgarallino, Schiaffino e tutti quelli che com'essi erano marinai, scesero a raccoglier nel porto quante barche vi si trovavano. E per amore o per forza le fecero lavorare.
Bisognava far presto a levar la gente e le poche cose da guerra e le artiglierie dai due vapori, perché in men di due ore quelle navi che si vedevano sempre più vicine potevano giungere a tiro e fare una strage. Intorno al Lombardo e al Piemonte parve un finimondo.
Intanto Turr con Missori, Pentasuglia, Argentino, Bruzzesi, Manin, Miocchi, discesi primi, salirono alla città, su cui cominciavano a sventolare bandiere d'altre nazioni, ma le più inglesi. E dalla città alcuni cittadini calavano al porto timidamente. Dei ragazzi li precedevano a corsa; sopraggiungevano frati bianchi, che davano poderose strette di mano a quegli strani forestieri sbarcati in armi e tutti vestiti alla borghese, salvo pochi in qualche divisa piemontese o in camicia rossa, forse una cinquantina. E quei frati facevano delle domande strane, da curiosi ma semplici; e udendo da uno dir che era di Venezia, da un altro di Genova, di Milano, di Roma, di Bergamo, inarcavano le ciglia, maravigliati come se l'esser essi potuti giungere nella loro Sicilia da quelle città, fosse cosa quasi fuori del naturale.
In un'ora o in un'ora e mezzo al più, tutta la spedizione fu a terra. Qualcuno si ricordò che quel giorno era venerdì, malaugurio; qualcun altro disse che era pur venerdì il giorno in cui Colombo partì da Palos, e che andassero al vento le superstizioni...! Ma a un tratto tuonò una prima cannonata. Le navi borboniche giungevano a tiro.
Erano tre: due a vapore più vicine, la terza a vela tirata a rimorchio da una di esse e lasciata poi indietro per far più alla lesta. Ma anche quella si avvicinava. E avrebbe potuto tirar qualche poco prima, ma avevano indugiato alquanto i lor fuochi, perché i due legni inglesi Argus e Intrepid ancorati nel porto avevano pregato a segnali di bandiere di non tirare, finché i loro ufficiali da terra non fossero tornati a bordo. Difatti dei marinai in calzoni bianchi uscivano da Marsala e scendevano frettolosi al mare. E allora quelle navi cominciarono a sfogarsi contro gli sbarcati, le due a vapore con tiri quasi in cadenza, quella a vela addirittura a fiancate.
Però i loro proiettili o davano in acqua, sguisciando poi a rotolar sulla riva già mezzi morti, o non oltrepassavano guari la linea del molo. Cadde qualche granata in mezzo alle compagnie già ordinate, ma queste pronte, si gettarono a terra e lasciarono scoppiare: una di quelle colpì e sfasciò mezzo un casotto da doganieri del molo; un'altra fece tremare la settima Compagnia, passandole parallela alla fronte, così che due braccia più a sinistra la mieteva tutta. "Alte le teste!" gridò Cairoli; e la Compagnia stette salda.
Alfine fu dato il comando di salire alla città. Manin e Maiocchi regolavano la corsa a gruppi. Un po' curvi, un po' carponi, un po' ritti, regolandosi alle vampate dei cannoni nemici, correvano quei gruppi su per il pendio verso la porta della città e vi entravano. Cara Marsala! E di qua e di là si spandevano per le vie traverse, perché in faccia a quella maestra era andata a porsi una delle fregate, e tentava, coi suoi tiri, d'infilare la porta. Poca gente per quelle vie; degli usci si chiudevano; dalle soglie d'altri usci e dalle finestre donne e uomini guardavano paurosi; e ve n'erano che applaudivano, i più parevano gente trasognata.
Garibaldi, sbarcato degli ultimi, saliva anch'egli ma lento alla città, portando la sciabola sulla spalla come un contadino la zappa. E ogni poco si volgeva a guardar il porto. Gusmaroli e altri pochi che lo seguivano, avrebbero voluto portarlo via di peso dal pericolo d'essere ucciso o soltanto ferito in quel primo istante. Senza di lui non si sapeva cosa sarebbe stato di quel gruppo d'uomini, fossero pur molti i grandi e i forti tra loro. Egli da solo era un esercito. Ma nessuno osava dirgli che si guardasse, nessuno, neppur Bixio, venuto via addirittura l'ultimo da bordo. Egli aveva voluto prima far portare a terra tutto ciò che gli era parso buono a qualcosa, poi non avendo più nulla da farvi, aperti egli stesso i rubinetti delle macchine affinché il Lombardo s'empisse d'acqua, era disceso.
Intanto le navi borboniche continuavano a tirare. E fu saputo subito che le due fregate a vapore si chiamavano Stromboli e Capri, e che quella a vela, tanto maestosa, era la Partenope. Ah! La Stromboli! V'erano tra gli sbarcati quei tali sette che vi avevano navigato su nel 1859 fino a Cadice, con gli altri deportati che dovevano andare a finire in America. Ora la riconoscevano ai profili. Non erano più quei tempi, sebbene fossero ancora tanto vicini: né era più l'11 luglio del 1849, quando, comandata da un Salazar, la Stromboli aveva inseguito i trabaccoli siciliani che, fallito loro lo sbarco in Calabria, andavano a rifugiarsi nelle Ionie. Lo Stromboli allora aveva issato bandiera inglese, perfidamente ingannando quei siciliani, e li aveva catturati e condotti a lunghe pene nelle carceri dei Borboni. Adesso era lì mortificata con quegli altri due legni, cui non restava che pigliarsi il Piemonte per menarlo via. Quanto al Lombardo l'avrebbero dovuto lasciar là giacere, come un mostro marino sputato sulla spiaggia.
Testimoni di quei fatti stettero i due vapori inglesi, ammirando la discesa e la prontezza e l'ordine con cui tutto era avvenuto. E non sapevano che si sarebbe subito gridato e ripetuto poi lungamente pel mondo che essi avevano aiutato Garibaldi, e che anzi per aiutarlo s'erano trovati là apposta. Furono voci false. L'Argus stava in quel porto da parecchi giorni per proteggere gli inglesi residenti in Marsala, L'Intrepid v'era giunto di passaggio da poche ore, e poche ore dopo se n'andava per Malta.

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:21 PM, ,




Giuseppe Crea nuovo segretario dell'Udeur di Montebello


L’Udeur di Montebello ha un nuovo segretario comunale: è il sig. Giuseppe Crea che è risultato vincitore sull’altra candidata, Samantha Verduci.
Crea guiderà il partito per i prossimi 3 anni, come previsto dallo Statuto del partito.
Eletto il nuovo segretario, l'Udeur si è dotato anche di una nuova sede, sita in contrada Masella, al centro del territorio comunale, dove si svolgeranno le riunioni del partito del Campanile di Montebello.
Il segretario ha reso noto che è in corso il tesseramento del partito che scadrà il prossimo 6 marzo. Dopo tale data si riunirà l’assemblea dei nuovi iscritti per procedere alla nomina dei componenti del Consiglio Direttivo dell'Udeur montebellese.

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postato da Anonimo; alle 8:54 PM, ,




Iran: appello per salvare Nazanin

Al Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan
All’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU, Louise Arbour
Al Presidente di turno dell’UE, Wolfgang Schüssel
L’anno che è appena iniziato è stato segnato, in Iran, dalla notizia della condanna a morte per impiccagione di una ragazza, Nazanin, accusata di omicidio. A Teheran, nel marzo 2005, Nazanin, quando aveva ancora solo 17 anni, avrebbe ucciso con un coltello uno dei due uomini che tentavano di violentarla. La storia di Nazanin è l’ennesimo caso di minorenne condannata a morte in Iran, un regime totalitario e misogino che disconosce i più elementari diritti umani infierendo in particolare sulle donne. Nel carcere minorile di Teheran e in quello di Rajai-Shahr ci sono almeno 30 persone condannate a morte che avevano meno di 18 anni quando hanno compiuto il reato. Nel 2005 almeno otto minorenni al momento del fatto sono stati impiccati in violazione della Convenzione internazionale sui diritti del Fanciullo. Il regime iraniano che opprime con inaudita violenza i propri cittadini rappresenta ormai una reale minaccia anche per la comunità e la sicurezza internazionale come dimostrano le ambizioni atomiche e le pubbliche dichiarazioni dello stesso Presidente iraniano contro l’esistenza dello stato di Israele. Per Nessuno tocchi Caino in Iran la pena di morte è prima di tutto una battaglia per l’affermazione dei diritti umani e la costituzione di uno stato democratico. Per noi la democrazia in Iran inizia anche dalla giovane vita di Nazanin e di tutte quelle donne dimenticate nei bracci della morte del regime dei mullah. Per questo, chiediamo a Voi, in quanto massimi rappresentanti della Comunità internazionale di impegnarvi perché l’Iran rispetti innanzitutto il diritto all’esistenza delle sue cittadine e dei suoi cittadini e assicuri agli iraniani quei diritti democratici e di libertà che sono elementi fondanti la comunità internazionale di cui oggi noi tutti ci sentiamo parte attiva.
Lo Staff di Montebello Ionico Blog News si unisce all'appello di Nessuno tocchi Caino per salvare la vita di Nazanin.

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 2:05 PM, ,




Monito dei Liberali: "Togliete i candidati indagati dalla Casa delle Libertà"


I liberali, per bocca di Stefano De Luca, hanno chiesto ai leader della Casa delle Libertà Berlusconi, Fini e Casini, di non candidare nessuna persona che risulta indagata.
In particolare anche i liberali di Cosenza chiedono di non candidare gli indagati calabresi.
Dicono i liberali: "Lo diciamo nell'interesse degli indagati, ma anche della chiarezza e della trasparenza. Chi è indagato, è un cittadino chiaramente detentore di tutti i diritti, ma potrebbe essere indebolito proprio dalla sua condizione. Un'autosospensione sarebbe imporsante".
Questa posizione ci lascia strasecolati, come direbbe qualcuno. Infatti, chissà cosa ne pensano di questa proposta Totò Cuffaro, candidato alla presidenza della regione Sicilia, indagato per mafia o gli altri personaggi della Casa delle Libertà indagati, come Previti, Dell'Utri e via dicendo. Ma la proposta ha un elemento di grottesco: cioè si chiede a Berlusconi di non candidare gli indagati, non considerando non solo che lui è un indagato eccellente, ma con l'aggravante che si è fatto le leggi per bloccare i processi che lo riguardano. Come a dire, che il primo a non dover essere candidato, è proprio uno dei tre a cui si sono rivolti i Liberali, cioè Silvio Berlusconi!!! Cari Liberali, cosa volete che vi diciamo? Avete segnato nella vostra porta, commettendo un autentico autogol! La prossima volta, cercate di state più attenti, se no, Silvio, non candiderà voi, altro che indagati....

postato da Anonimo; alle 7:01 PM, ,




Le avventure dello Zar Loris, il Diabolico


2. Un treno per Saline
Lo Zar Loris viaggia sempre in macchina, come si conviene alle persone di un certo rango.
Però ogni tanto, vuoi per impossibilità di usare il mezzo privato, vuoi per altri motivi, decide di prendere il treno. E qui sono dolori, perché, non essendo abituato al mezzo pubblico, arriva sempre in ritardo, così riesce soltanto a vedere il fumo della locomotiva in lontananza, che si allontana. E’ ben vero che per fare le cose, bisogna avere abitudine, se no si rischia di non azzeccare i propositi. I
l primo treno lo Zar Loris lo incomincia a perderlo alcuni anni fa, appena eletto alla carica più alta del Palazzo del Comune. Era in atto la partenza della fabbrica delle Ferrovie O.G.R. di Saline e lo Zar tentò (a parole) di fermarla, di non farla partire, ma arrivò in ritardo alla stazione, e la fabbrica partì, con tutti i suoi posti occupazionali.
La seconda volta arrivò in ritardo per l’Ufficio Postale di Masella, che lasciò i binari della stazione di Saline, proprio mentre lo Zar con tutta la sua truppa arrivava, con il fiato trafelato, gridando di non far partire il treno. Ma il capo stazione gli intimò: “Ma lei è matto! Come faccio a non far partire il treno? Piuttosto, anche se è uno Zar, cerchi di essere puntuale, la prossima volta”.
Ma la volta ancora, stesso risultato: ad andarsene è la Guardia medica di Montebello. Lo Zar arriva in ritardo, ma promette: “Vedrete che la farò ritornare!” Si, ma con quale treno? E in quale binario? E così tutte le altre volte, sempre il treno perso. Che sbadato, questo Zar!
Adesso le Ferrovie stanno realizzando i lavori di raddoppio della linea Melito-Reggio. E il giornalista Natalino Licordari, sulla “Gazzetta del Sud”, intervista lo Zar Loris, che si lamenta:”Saline è stata tagliata fuori dalle opere di compensazione, che sono, invece, in fase di realizzazione negli altri comuni”. Mannaggia a noi montebellesi, altri treni persi da parte dello Zar!
E pensare che lo zar Loris aveva fatto una precisa richiesta scritta alle Ferrovie. Ma evidentemente, le Ferrovie, non lo hanno tenuto (come sempre) in considerazione, al contrario degli altri Zar vicini. Alla fine dell’intervista, lo Zar esprime un desiderio: ”Mi piacerebbe creare insieme agli altri sindaci un tavolo di concertazione, per avere un confronto più efficace con Trenitalia”. Che mente diabolica!!!
Povero Zar, lo ammette lui stesso, che la sua azione è stata inefficace e cerca alleati per contare di più. L’unione fa la forza, pensa lo Zar, ma per contare di più, la forza aritmetica c’entra poco, anzi per nulla.

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postato da Anonimo; alle 3:17 PM, ,




Istanza per espletare la funzione di Presidente di seggio elettorale

Gli iscritti all'albo dei Presidenti di Seggio elettorale che vogliono espletare tale funzione alle prossime elezioni, devono presentare istanza alla Corte d'Appello entro 10/02/2006.
Per scaricare il modello d'istanza clicca qui.

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 11:34 PM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XX

La Sicilia!

Tutti intanto sui due legni stavano accovacciati per ordine severissimo dei Comandanti, ma tutti guatavano dall'orlo dei parapetti certi monti che dapprima parevano nuvolaglia e che svolgevano via nell'aria vaporosa i loro profili sempre più netti. Quei monti per quei cuori eran già tutta la Sicilia che si animava, che esultava, che cantava alla loro venuta. E poco appresso, quando cominciò ad apparire una striscia bianca tra mare e terra, si diffuse la voce che là fosse Marsala.Marsala! Tra quella e i due vapori erano libere le acque. Che fortuna! Pareva che quella striscia bianca e tutta la terra movesse loro incontro, tanto la distanza si stringeva, tanto i due legni filavano agili, aiutati anche da un po' di ponente che appunto allora si era messo. Dunque ancora forse qualche breve ora, e i due vapori avrebbero atterrato. Tutto dipendeva da questo, che non si staccassero da Marsala navi da guerra a incontrarli a cannonate. Ma la speranza era grande.Sul ponte del Piemonte che andava sempre avanti, quei del Lombardo vedevano Garibaldi circondato da un gruppo dei suoi, coi cannocchiali all'occhio. Guardavano due legni da guerra bianchi, ancorati nel porto. Ad un tratto il Piemonte rallentò, si fermò quasi, pigliò su qualcuno da una barca peschereccia che veniva da Marsala. E da colui Garibaldi seppe che quei due legni erano inglesi; che dal porto di Marsala, nella notte, n'erano partiti due napolitani per Sciacca e Girgenti; che in quella mattina stessa delle milizie venute il dì avanti eran tornate via dalla città, dirette a Trapani. La fortuna, dunque, era proprio tutta dalla parte di Garibaldi! E il Piemonte filava e il Lombardo dietro con Bixio, che non sapendo ciò che Garibaldi sapeva, tempestava i suoi di star giù, minacciava ira ai marinai se gli sbagliassero manovra: Ma di sbarcare era anch'egli sicuro: anzi a un certo momento che passò vicino al suo un piccolo legno inglese, egli gridò: "Dite a Genova che il general Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi 11 maggio, alle una pomeridiana!"Quella sicurezza di Bixio passò in tutti i cuori. Perciò non fece quasi senso l'apparizione di due pennacchi neri, lontani, in giù a destra; fumo di due navi da guerra certo, che dovevano venire a furia. Fulmini se mai giungessero in tempo! Ma esse quel tanto spazio non potevano divorarselo; la terra era ormai vicinissima: si distingueva già il molo e fino la gente. Un altro po' di ansietà, poi...

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 11:08 PM, ,




La tragica fine di Domenico Scaramuzzino, il "Biondo"


Una tragica fatalità ha portato alla morte l'operaio Domenico Scaramuzzino, di 39 anni.
E' successo mercoledì sera, lungo la statale 106, dopo il bivio di Saline (come si vede nella foto). Erano circa le ore 19.30 quando, all'altezza del chilometro 23,500 della statale 106, Domenico esce dal bar Allen ed attraversa la strada. Ma, prima di raggiungere la sua autovettura, sul ciglio della strada arriva un carro attrezzi Fiat Iveco che lo prende in pieno e lo trascina per decine di metri in avanti, sbattendolo dentro una scarpata. E' stato inutile l'intervento dei sanitari del "118" dell'ospedale di Melito Porto Salvo.
Grande commozione ha suscitato la notizia a Fossato, suo paese di nascita e a Lazzaro, paese dove l'operaio viveva con la moglie e i suoi tre figli.
Alla famiglia vanno le più sentite condoglianze da parte del blog.

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postato da Anonimo; alle 10:47 AM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XIX

Di nuovo in mare

Era quasi il tocco dopo mezzodì, quando il Piemonte e il Lombardo si mossero verso l'isola del Giglio. Finalmente!Garibaldi era stato tutti quei due giorni in angustia. Certo egli ignorava ciò che si seppe poi, e cioè che il Ricasoli, governatore della Toscana, aveva telegrafato al prefetto di Grosseto di "tenersi estraneo a quanto succedeva" nel golfo di Talamone. Ma lo avesse anche saputo, temeva del Farini, temeva del Cavour, né avrebbe potuto giustamente lagnarsi di loro, se gli avessero fatto giungere addosso la squadra di Persano a pigliarselo. Il momento era ben più cruccioso che quello di Genova. Nei tre giorni della sua partenza, tutta l'Europa avea avuto tempo di mettere il Governo di Torino alla stretta o di catturare lui o di prepararsi alla guerra. E allora che rovina! Le genti del mezzodì deluse e cadute nell'accasciamento; egli e il suo partito umiliati; Vittorio Emanuele costretto a rinnegare il pensiero unitario! Ci sarebbero voluti molti anni a rimetter su gli animi; e intanto, prima che tornasse un'occasione, sarebbero divenuti vecchi, sarebbero forse morti il Re, Cavour, Mazzini, lui, tutta quella generazione; e non si sapeva che cosa sarebbe poi avvenuto.Ora dunque egli e tutti sulle due navi respiravano contenti. Girata la punta dell'Argentaro, ecco a destra l'isola del Giglio con la sua costa erta e rocciosa e col suo borgo su in cima. Una freschezza, una pace! Quanti di quei naviganti già vecchi e stanchi avranno pensato di venirvi un dì a trovarsi un posticino lassù, per invecchiarvi del tutto e morirvi, pensando alla loro odissea! Ma ora l'odissea non era finita, anzi andavano a crearne forse l'ultimo canto.Più in là del Giglio, Montecristo, l'isola dei sogni; e lungo la costa occidentale dell'Argentaro a guardare in su torri, torri e torri. Che strano arnese da guerra doveva essere stato quel monte! E poi a sinistra Giannutri, luogo da capre selvatiche e da conigli.Di là da quelle isolette i due vapori pigliarono il largo; dunque alle coste romane non c'era proprio più da pensarci, e presto sarebbero entrati nelle acque napolitane.Veniva ai Mille la sera e la malinconia. Cosa si pensava di loro nelle loro città, nei loro villaggi, nelle loro case? Davvero tutta l'Italia doveva stare in grande ansietà. Ormai la spedizione era via da quattro giorni; ogni istante poteva esser quello di una grande tragedia, in qualche punto del Tirreno. Se i due vapori si fossero imbattuti nella crociera napolitana, avrebbero dovuto arrendersi o avventarsi cannoneggiati contro le navi borboniche, lanciarsi all'arrembaggio da disperati, e farsi saltar in aria con esse o pigliarsele. Chi sapeva mai! Con Garibaldi e con Bixio alla testa, tutto era possibile. Ma se invece fossero stati catturati e menati nel porto di Napoli, dove quel Re potesse veder Garibaldi e i suoi là, sotto le finestre della reggia, prima di farli morire forse tutti, o empirne le sue galere? Chi amava, pensava così e temeva e sperava; e forse non sarà mancato chi anche peggio della cattura avrà augurato una tempesta di cannonate sui due vapori e il fondo del mare a chi vi era su, per tomba.Ma i due vapori andavano ancora sicuri. E andarono tutta la notte e tutto il giorno dipoi, che era il 10, senza veder che cielo ed acqua come se fossero nell'Oceano. A bordo, i pavesi cantavano. Tutto era quieto. Solo a una cert'ora prima del mezzodì, ci fu un po' di trambusto, perché uno del Lombardo si era gettato in mare, pel dolore di non essere riuscito a farsi inscrivere nei Carabinieri genovesi. Fu subito fermato il vapore; una lancia vogò come saetta, giunse dove quell'uomo si dibatteva tra le onde, e uno della lancia si chinò, lo tirò su mezzo morto ma come fosse un gingillo. Quel forte dalle braccia così gagliarde doveva essere, era certo il figlio di Garibaldi. A bordo si diceva così, perché così le moltitudini fanno la loro poesia, e infatti quel forte era proprio Menotti.Dopo, sul meriggio, il Piemonte cominciò a filar via più spedito e il Lombardo a rimanere indietro. La distanza s'allungava ora per ora... Dove voleva andare il Generale così solo? Forse aveva pensato di dividere in due la spedizione, per non correre tutti la stessa sorte, se mai fosse stata avversa? Chi lo sapeva! Divisi, Piemonte e Lombardo, l'uno o l'altro sarebbero riusciti ad approdare, e riuscendo tutt'e due, una volta sbarcati, facile sarebbe stato riunirsi nell'isola.Era un nuovo dolore per quei del Lombardo, poiché se Bixio era Bixio, ben più fortunati erano coloro che si trovavano a correr le sorti del Generale, ora che la prova era così vicina. Finire con lui come che fosse, ognuno se lo poteva augurare.In un certo momento, mentre gli animi erano agitati così, Bixio chiamò tutti a poppa. Era furioso: Aveva scaraventato un piatto in viso a uno che s'era lamentato dei superiori, e aveva perduto a lui il rispetto. - Tutti a poppa! -E Bixio di lassù, dal ponte del comando, fremente come un'aquila librata sull'ali, già per piombare sulla preda, parlò:"Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago, prigioniero, ma son qui e qui comando io. Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono Nino Bixio. Dovete ubbidirmi tutti: guai chi osasse un'alzata di spalle, guai chi pensasse d'ammutinarsi. Uscirei col mio uniforme, colla mia sciabola, con le mie decorazioni, e vi ucciderei tutti. Il Generale mi ha lasciato, comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impiccherete al primo albero che troveremo, ma in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo."Veramente esagerava, perché l'atto di colui che lo aveva offeso era affatto individuale, e non meritava quel suo fiero discorso. Però quand'egli ebbe finito e voltò le spalle, forse per non farsi vedere commosso, tutte le braccia erano alzate a lui, tra grida di lode. Ma da quel suo discorso parve a tutti di aver indovinato che il disegno di Garibaldi era proprio di tentar lo sbarco, egli e Bixio, ognuno da sé. Difatti il Piemonte era già quasi fuori della lor vista, sicché prima che fosse notte fatta, non ne scorgevano neppur più il fumo. E passò sul Lombardo un soffio di gran malinconia. Erano congetture. Di certo vi era che cominciava la notte dei pericoli veri. Ormai la marineria napoletana doveva sapere da un pezzo che la spedizione era in mare, e che si era forse già tesa tutta davanti all'isola ad aspettarla. Garibaldi andava ad esplorare.Egli, prudentissimo e in guerra sempre geloso del proprio segreto, soltanto dopo salpato da Santo Stefano, poiché allora nessuno avrebbe più potuto propalar nulla, aveva detto al suo aiutante Turr di chiamargli Crispi, Castiglia e Orsini siciliani, per determinare il punto di sbarco. E in quella conferenza, abbandonato il suo primo pensiero di scendere a Castellamare del Golfo, aveva deliberato di tentarlo a Porto Palo, sulla costa tra Sciacca e Mazzara, dove è fama che il 16 giugno dell'827 siano sbarcati i primi Saraceni che invasero l'isola, chiamati e guidati da Eufemio di Messina. Ma certamente questo fatto di mille anni avanti non entrò per nulla nella scelta di Garibaldi: perché né egli, né quegli uomini che stavano con lui, se anche lo sapevano, erano teste da fissarvisi su. Comunque sia, per andare a Porto Palo, i due vapori dovevano fare falsa rotta verso la Berberia, e poi, se le acque parevano libere, voltar di colpo verso Sicilia a trovarlo.Ma assai dopo il mezzo di quella notte dal 10 all'11, Garibaldi giunto presso l'isoletta di Maretimo, che nel gruppo delle Egadi è la più lontana dalla costa di Sicilia, deliberò di fermarsi celato dall'isoletta e a lumi spenti, per aspettare il Lombardo. Da ponente e da tramontana vedeva i fanali delle navi napolitane in crociera, e in quei momenti doveva parergli d'esser ne' suoi tempi quasi favolosi di Rio Grande d'America. Stato un pezzo in quel silenzio come in agguato, inquieto pel Lombardo che non appariva, tornò indietro per cercarlo. E coloro che stavano sul Lombardo e che a quell'ora vegliavano, quando rividero il Piemonte lo credettero una nave nemica che corresse loro incontro a investirli. Lo credette lo stesso Bixio. Piantato sul suo ponte, egli fece levar su tutti e inastar le baionette; comandò al macchinista di dar tutto il vapore, e al timoniere di voltar tutto a sinistra, per andare alla disperata addosso a quel legno. A prora Simone Schiaffino, capitan Carlo Burattini d'Ancona, Jacopo Sgaralino di Livorno, con dietro una folla, stavano pronti per lanciarsi all'arrembaggio, tutto il ponte del Lombardo fremeva, e mancava poco al grand'urto. Ma allora sonò la voce di Garibaldi:- Capitan Bixio!- Generale! - urlò Bixio. - Indietro! Macchina indietro! Generale, non vedevo i fanali.- E non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica? -La commozione era stata così grande, il passaggio dallo sgomento, dall'ira, dalla ferocia alla gioia così repentino, che la parola 'crociera' non fece quasi niun senso, e tutto fino a un certo segno tornò quieto. Intanto Garibaldi e Bixio si concertarono, poi i due vapori ripresero la via l'un presso l'altro verso l'Africa, sempre però il Piemonte un po' avanti. Così andarono fino all'alba, e per le prime ore del mattino, in quell'acque tra la Sicilia e le coste di Barberia, ma senza mai perder di vista il gruppo delle Egadi; Levanzo lontana, Maretimo più in qua, ancor più in qua verso loro la Favignana. A bordo del Lombardo un Galigarsia, nativo di quell'isoletta, povero milite che doveva morire quattro giorni dipoi a Calatafimi, diceva ad un gruppo di quei suoi compagni che in quell'isoletta così bella v'era un carcere profondissimo sotto il livello del mare, dove stavano chiusi sette compagni di Pisacane sopravvissuti all'eccidio di Sapri. Condannati al patibolo e poi graziati, morivano ogni ora un po' in quella fossa maledetta.Ma il sentimento del pericolo presente, la maravigliosa vista delle cose in contrasto col disgustoso stato in cui tutti si trovavano, pigiati da tanto tempo su quel legno, non lasciavano quasi posto alla pietà per chi dolorava altrove. Del resto, l'ora era decisiva: o presto quei miseri sarebbero usciti liberi, o avrebbero avuto dei nuovi compagni.

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 6:48 PM, ,




Due autorevoli personaggi lanciano l'allarme:"Potere criminale!"

Parla il presidente f.f. della Corte d'appello del distretto di Reggio Calabria, Pasquale Amato
"La criminalità dispone di una struttura agile, moderna, intelligentemente organizzata, perfettamente inquadrata, attiva in tutti i settori, dotata di grandi mezzi, sempre spietata e capace di sconvolgere l'esistenza stessa della società".
Nella sua relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2006, il magistrato ha affermato che, nonostante la meritoria azione delle Forze dell'Ordine, l'incidenza del crimine organizzato sul tessuto sociale e sulle attività produttive è ancora elevato, giungendo a permeare la vita amministrativa di molti comuni, a condizionare appalti e servizi pubblici, a minare alla base la vita sociale con la capillare diffusione della droga, ad incidere sullo sviluppo economico con la pratica corrente dell'usura e dell'estorsione che azzerano la capacità di azione di piccoli e medi imprenditori in ogni settore.
Una 'ndrangheta che guarda al mondo della politica con grande interesse, come ha dimostrato l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno.
La via maestra per sconfiggerla, ha detto Adorno, è quella di sottrarre alle cosche le ricchezze illecitamente accumulate, impedendo, da un alto, l'approvvigionamento economico degli associati e, dal'altro, il lucroso reimpiego in altre attività.
Seguendo la sua relazione, le cifre dicono che il numero delle rapine rispetto alo scorso anno è rimasto invariato. Vi sono stati una lunga serie di atentati incendiari nei confronti di autovetture, esercizi commerciali, portoni di abitazione, boutiques.
Sintomatica è stata la denuncia dei gestori del ristorante "Al Valantain", sito tra gli splendidi tornanti di Santa Trada, costretti a chiudere in seguito a delle lettere minatorie e a delle bottiglie incendiarie. Episodi come questo esigono interventi urgenti dello Stato, volti a garantire il diritto al lavoro e lo sviluppo economico, in modo che a chiunque possa essere assicurata la libertà d'impresa.
La città di Reggio Calabria sta vivendo una gravissima situazione. Il racket è in continuo aumento. Una città in cui molti sono costretti a pagare il pizzo. Poi c'è l'estorsione e l'usura, a volte due facce della stessa medaglia.
Parla il presidente della commissione regionale antimafia, Giuseppe Guerriero (nella foto in alto)
"A cento giorni dal delitto fi Faortugno, nulla è stato fatto".
E' schietto il presidente dell'antimafia calabrese. a 100 giorni dall'omicidio di Franco, non solo non sono stati rintracciati gli esecutori e i mandanti, ma nella nostra regione si continuano a registrare attentati e morti ammazzati. Questo ci dice che il territorio calabrese è ancora ben saldo in mano alla 'ndrangheta e, pertanto, l'impegno dello Stato centrale è risultato di fatto inadeguato, vuoi per sottovalutazione, vuoi per scelte incomprensibili. Infatti, il superprefetto, dottore De Sena e qualche squadra dedicata alle investigazioni, da soli, non bastano, se non supportati da politiche di sostegno alla popolazione. Il governo Berlusconi distoglie il personale di polizia dalle indagini e dai servizi essenziali per istituire nuovi poliziotti di quartiere che fino ad oggi nulla hanno potuto fare per contrastare la criminalità. Poi ci sono i tagli alla finanziaria, come denunciato dal sindacato di polizia, che fanno sì che non si rinnovi il parco auto, non si acquistano nuove strumentazioni tecnologiche e tanto altro ancora. In sintesi, vi è una complicità, sicuramente inconsapevole, del Governo, che, di fatto, impedisce il controllo del territorio. Se poi pensiamo al tentativo da parte del Governo, di limitare il campo di applicazione della legge Rognoni-La Torre in relazione ai beni confiscati ai mafiosi, legge che fino ad oggi ha arrecato tanti danni al sistema economico che alimenta la mafia, beh...qualche dubbio sulla bontà e sull'ingenuità dell'operato di questo Governo mi sorge.
I calabresi vogliono uno Stato più attento ai loro bisogni, ma i Governi hanno latitato sul problema Calabria, non essendo stati in grado di creare occupazione. Se non c'è lavoro, la malavita recluta il suo esercito con facilità.
La politica calabrese negli ultimi 20 anni, è mutata in peggio. Oggi bisogna fare di necessità virtù. Tutti gli aministratori calabresi, al di là dell'appartenenza politica, debbono trovare sintesi su progetti comuni, penso ai fondi europei destinati alla nostra regione nel prossimo quinquennio. Bisoigna finanziare le aree che servano al rilancio economico della nostra regione, con la creazione di posti di lavoro duraturi. Bisogna avere il coraggio e la capacità di realizzare programmi di investimento a lungo termine, rinunciando di dare contributi minimi che non servono a nulla. Se la politica non fa ciò, diventa complice e si arrende alla 'ndrangheta. La politifca deve porre al centro del suo operato l'etica. Tutte le forze sane della nostra terra devono assumersi la responsabilità di agire. Per sconfiggere la 'ndrangheta c'è bisogno del coinvolgimento di tutti. Il progetto che sto portando avanti con l'aiuto di tutta la commissione mira ad allacciare rapporti con tutte le realtà associative che operano nel sociale, con i sindacati, con le forze di polizia, con le università e con le scuole. Qualche, se pur timido segnale, abbiamo incominciato a darlo. Il consiglio regionale, ha approvato all'unanimità. l'acquisizione delle azioni di Banca Etica. Banca, questa, che ha lo scopo di contribuire alla diffusione di un modello di attività creditizia orientato al sociale, tramite il sostegno al micro-credito, alla cooperazione ed al mondo delle piccole imprese, contrapponendosi al fenomeno dell'usura.

postato da Anonimo; alle 7:08 PM, ,




La storia dei Mille - Capitolo XVIII

Le armi

Durante la sosta a Santo Stefano furono distribuite le armi alle compagnie; solenne momento! Faceva pensare a un altro ancor più solenne, quello di quando vicina l'ora della battaglia, i reggimenti d'allora caricavano i fucili con quell'indescrivibile ronzio di bacchette tutte piantate a un tempo nelle canne, che dava il raccapriccio e il cupo sentimento della morte. Quelle armi erano vecchi fucili di avanti il '48, trasformati da pietra focaia a percussione, lunghi, pesanti, rugginosi, tetri. Stava legata a ciascun fucile una baionetta nel fodero cucito a un cinturone di cuoio nero, con certa piastra da fermarselo alla vita e certa cartucciera proprio da far malinconia a provarsela. Oggi non se ne vorrebbe servire, per così dire, neppure un bandito. Eppure nessuno se ne lagnò. Insieme con quell'arma, ognuno ricevette venti cartucce, e se le mise a posto con gran cura. Quelle povere cose erano tutte le risorse di cui Garibaldi poteva disporre. Povero Garibaldi! Nell'ultimo momento che stette in quelle acque, un suo compagno d'altri tempi che lo aveva seguito nei mari della Cina e che poi aveva perduto una gamba combattendo pei liberali del Perù, bel soldato, vivacissimo ingegno, voleva seguirlo così mutilato com'era anche a quella sua bella guerra. Egli dovette supplicarlo di andarsene, e infine comandarglielo. Furono lagrime! Ma Stefano Siccoli dovè ubbidire, discendere, veder da terra salpare l'ancora, stringersi il cuore perché non gli scoppiasse. Però aveva già il suo proposito bell'e formato: egli avrebbe raggiunto Zambianchi.

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:48 PM, ,