La storia dei Mille - Capitolo XXX
giovedì 30 marzo 2006
Fu dunque un giorno lieto quello d'Alcamo; ma l'altro appresso, quando la colonna partì acclamata e marciò a Partinico, qual diverso mondo le si apprestava a così breve distanza! Per Alcamo la milizia borbonica battuta a Calatafimi era passata senza che nessuno le si fosse fatto contro per impedirla; ma Partinico la aveva affrontata, e per le vie e per le case era stato un combattimento da selvaggi. A entrare in quella città, parve di affacciarsi a uno degli orrendi spettacoli di strage fra Greci e Turchi della rivoluzione ellenica di quarant'anni avanti.Proprio sulle soglie della cittadetta, stavano mucchi di morti bruciacchiati, enfiati, in cento modi straziati. E tenendosi per mano a catena e cantando, vi danzavano attorno fanciulle scapigliate come furie, cui faceva da quadro e da sfondo la via maestra nera d'incendi non ancora ben spenti. Le campane sonavano a stormo; preti, frati, popolo d'ogni ceto, urlavano gloria ai militi correnti dietro a Garibaldi, che traversò rapido la città col cappello calato sugli occhi, e andò a posarsi all'altro capo, in un bosco d'olivi, mesto come non era ancor parso in quei giorni. E là gli furono condotti alcuni sodatucci borbonici, rimasti prigionieri in mano dei Partinicotti e salvati a stento da qualche buono; poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come fanciulli.Sprazzo di sereno nella tempesta, chi si potrebbe tenere dal narrarlo! Garibaldi sedeva in quel momento a pie' d'un olivo. Aveva appena finito di confortare quei poveri soldati, che gli fu presentato dal capitano Cenni suo carissimo uno dei giovani della spedizione, il quale portava una manata di fragole in un canestrino fatto di foglie. "Generale," disse il Cenni, "questo cacciatore delle Alpi vi offre le fragole." Garibaldi guardò Cenni, guardò il giovane, poi sorrise un poco, crollò la sua bella testa e gli domandò: "Di dove siete?" - "Genovese" rispose il giovane quasi tremando. E allora il Generale in dialetto genovese. "E avete ancora la madre?" "Generale sì;" e gli occhi del giovane videro allora molto lontano. "Cosa direbbe - continuò Garibaldi - se fosse qui a vedere che mi piglio le vostre fragole?" Ma intanto tese la mano e ne levò due o tre per gradire, soggiungendo: "Andate, andate, godetevele voi, che vi parranno più buone che a me."Dopo non lungo riposo, le Compagnie si rimisero in marcia, allontanandosi quasi con gioia da quel luogo di sangue. Alcuni Partinicotti le seguirono armati di doppiette e di pugnali. Ve n'era uno che pareva di bronzo, tutto vestito di velluto biancastro, con a cintola due pistole. Il Sampieri dell'artiglieria diceva che erano dell'aria di colui i Palicari e i Clefti dei quali egli, nell'esilio suo in Grecia, ne aveva conosciuti alcuni, vecchi ancora di quei di Bozzaris. Si sarebbe detto che quell'uomo non fosse fatto che ad uccidere, e invece a parlargli era buono e anche grazioso. Raccontava quasi scusandosi l'eccidio cui aveva partecipato; e diceva con poesia di Palermo, bella, grande: "Vedrete, vedrete! Il palazzo reale!" E forse tutto il suo patriottismo era per l'isola sua, pel regno, pel piccolo regno di Sicilia, indipendente da tutto il mondo. Seguì la marcia di Garibaldi senza più staccarsi, divenne amico di qualcuno in tutte le Compagnie, portava la letizia in tutti i crocchi e le buone promesse. Nove giorni di poi, il mattino del 27, nell'assalto di Palermo, fu visto l'ultima volta, sotto il Ponte dell'Ammiraglio, disteso morto presso un Cacciatore borbonico, che moribondo egli stesso lo guardava. Forse lo aveva ucciso lui.
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Mi passa per la testa
mercoledì 29 marzo 2006

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 4:24 PM,
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La storia dei Mille - Capitolo XXIX
lunedì 27 marzo 2006
Garibaldi non perdeva tempo: all'alba del 17 rimise la sua gente in cammino.Da Calatafimi un'ultima occhiata d'addio al colle del Pianto Romano, poi via per Alcamo. E fu una marcia mattutina di poca fatica anche per quelli dei feriti che, sentendo di potersi reggere, piuttosto che starsene inoperosi, avevano voluto seguire la colonna, chi col braccio al collo, chi con la testa bendata, chi a piede nelle file, chi su quei carri di laggiù storiati di Madonne e di Santi, illustrati da sentenze e leggende paesane. Parlavano dei compagni rimasti a Vita nella chiesa o nelle case, dove mancavano di tutto e pativano, e qualcuno stava forse per morire, sebbene il vecchio Ripari e Ziliani e Boldrini e gli altri medici facessero prodigi d'amore.Erano cose meste; eppure la campagna meravigliosa metteva nei cuori il proprio rigoglio, onde si sentivano senza troppi rimpianti. Ah che paese! Se quel trionfo di verde fosse venuto crescendo così come pareva, la via doveva menare davvero alla terra promessa. Intanto qualche cosa di paradisiaco si vedeva già. La fama di Garibaldi era andata a rinnovare le fantasie già note altrove; onde, agli sbocchi delle stradicciole campestri che mettevano in quella via, gruppi di donne dinanzi ai loro uomini e coi bimbi al collo o per mano, gli gridavano dei saluti quasi religiosi. Alcune si inginocchiavano, altre dicevano "Beddi!" ai giovani soldati.Via via andando si scoprivano, tra le biade peste, arnesi militari dei borbonici; e quei villici li additavano imprecando agli 'schifiosi' che li avevano gettati nella ritirata. Poi, già nelle vicinanze di Alcamo, comparvero delle carrozze di signori che venivano incontro a Garibaldi, tirate da pariglie superbe. A un certo punto comparve il mare del Golfo così azzurro, sotto un cielo così terso, che tra per quella vista e la bella campagna e il tutt'insieme, fu un'ora di incanto. In qualche gruppo della colonna scoppiarono canti lombardi, di quelli della regione dei laghi.Quella era proprio la terra degna che vi fosse sbocciato uno dei primi fiori della nostra poesia, perché tutto ciò che vi si vedeva ricordava la 'Rosa fresca aulentissima' di Ciullo o di Cielo. Allora la variante non importava. E poi ecco Alcamo con le sue belle case e i suoi giardini coi muri passati dai palmizi, che si spandevano fuori torpidi nel caldo meriggio. Non poteva essersi dato che il delizioso 'Contrasto' fosse avvenuto davvero con di mezzo uno di quei muri o la siepe d'uno di quegli orti? Tutto vi pareva così antico!La città, quasi moresca d'aspetto, quasi mesta, era in festa religiosa, ma pareva allegrarsi a poco a poco, per l'arrivo di quegli ospiti d'oltremare. E poi si esaltò addirittura per un fatto quasi incredibile, di cui si parlava già sin dal giorno avanti in Calatafimi come di cosa avvenuta o da avvenire. Garibaldi si era lasciato indurre da fra Pantaleo a ricevervi la benedizione in chiesa. Egli schiettamente, semplicemente, in mezzo al popolo, si sottomise alla Croce che il frate gli impose sulla spalla, proclamandolo guerriero mandato da Dio. La scena fu un po' strana, ma il Generale stette con tanta sincerità di spirito, che neppure i più filosofanti della spedizione trovarono nulla a ridire. Fu un lampo di misticismo sprigionato dall'anima di lui, formata d'un po' di tutte le anime grandi che furono, e anche di quella di Francesco d'Assisi, dietro al quale, nato nel suo tempo, egli si sarebbe scalzato dei primi a seguirlo.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 7:44 PM,
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Seggi in Rosa nelle sezioni elettorali di Montebello
domenica 26 marzo 2006

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postato da Anonimo; alle 10:47 PM,
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A proposito di cambiamento della legge elettorale - Nomina degli scrutatori

Buona lettura.
In tempi di grancassa mediatica, e di continui rimandi a programmi e bilanci, nessuno ha pensato di sottolineare un piccolo, ma significativo corollario della nuova legge elettorale: il cambiamento nella nomina degli scrutatori. Oggi lo scrutatore non può più essere “indifferente alla politica” come canta Bersani, perché invece viene nominato direttamente dalla Commissione Elettorale in rappresentanza delle forze politiche esistenti. Fino al 1992 questa era la regola, con la suddivisione degli scrutatori proporzionalmente alle forze politiche, con una Commissione formata da cinque scrutatori più il Presidente. Tolardo scrive: “Nella squadra c’erano sempre un DC e un Comunista, il comunista firmava la delega per il ritiro dell’indennità al Partito e riceveva in cambio un sacchetto delle Coop, il DC la ritirava per intero e se la teneva in tasca, poi c’erano tre scrutatori dei partiti minori, anche DP oppure AO avevano i loro e così il MSI, i liberali spesso integravano il misero assegnino di indennità con qualcosa tipo 5.000 lire, se no non trovavano nessuno nel loro giro che facesse lo scrutatore”.
Con l’avvento del maggioritario cambiò il criterio di nomina, consentendo a tutti gli iscritti alle liste elettorali—inclusi quanti ne avevano fatto esplicita richiesta—di partecipare all’estrazione per coprire quel ruolo. Lo scrutatore veniva istruito nei suoi compiti dal Presidente di seggio e pagato attraverso accrediti bancari circa un mese dopo le elezioni. Questa riforma era mirata ad evitare che la nomina della Commissione Elettorale diventasse occasione per un voto di scambio da parte dei partiti: anche se pochi, i soldi potevano far comodo e influenzare lo scrutatore-elettore!
La modifica legislativa consentì l’accesso al seggio anche per gli “scrutatori non votanti”, persone cioè che non appartenevano alle strutture partitiche. Per chi veniva estratto, il compito di scrutatore rappresentava un momento di reale confronto con il sistema elettorale: la possibilità di vedere dall’interno come funzionava la macchina elettorale, di esserne parte, di sentirsi un minuscolo ma necessario ingranaggio dello Stato Democratico. Per esperienza personale, quello dello scrutinio è un lavoraccio, talvolta mal fatto, perchè spesso le persone estratte si dimostrano incompetenti, per nulla avvezzi a carte e schede elettorali. A me è capitato di incontrare vecchie signore, pensionati, casalinghe, tutti “scrutatori non votanti”, non solo non politicizzati ma talora assolutamente ignari del funzionamento dell’intero sistema elettorale, ma che attraverso quell’esperienza prendevano coscienza dell’importanza del voto. Oppure intascavano i soldi, e tornavano a casa, contenti di aver racimolato qualcosa onestamente e in poco tempo, senza dover ringraziare nessuno oltre la sorte.
I presidenti di seggio lamentavano spesso, rimpiangendo gli scrutatori nominati dalla Commissione, di essere “professionisti”, nel senso che scrutinavano sistematicamente ad ogni elezione ed erano quindi “veloci e affidabili”. La riforma ha annullato tutto questo, politicizzando nuovamente un momento che avrebbe dovuto essere soltanto istituzionale.
Lo so, è poca cosa in tempi di grandi temi, ma la formazione del cittadino avviene per gradi e piccoli passi, e anche attraverso esperienze come questa. E se ci aggiungiamo l’estinzione di un’altra specie importante, quella del “giornalista parlante”, non resta che chiederci se in futuro non ci toccherà assistere alla scomparsa totale del “cittadino elettore”— specie umana dannosa in uno stato non democratico.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 10:23 PM,
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Stabilizzazione degli Lsu ed Lpu, l'assessore all'Urbanistica Tripodi esprime soddisfazione
sabato 25 marzo 2006

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 8:03 PM,
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La storia dei Mille - Capitolo XXVII
Dal 1814 quando i napolitani di Murat salirono fino al Po, senza saper bene se si sarebbero incontrati amici o nemici coi loro vecchi commilitoni dell'esercito italico del Viceré Eugenio; e poi si offesero scambiando con essi delle cannonate: da allora non si erano più trovati di fronte italiani delle due parti estreme, armati per darsi battaglia. L'ora dunque era solenne.I due piccoli eserciti stettero ancora un pezzo a guardarsi. Garibaldi su di una sporgenza del colle, tra certe rocce che gli facevano riparo dinanzi a mezzo la persona, stava con Turr, Sirtori, Tukory, osservando il nemico. Aveva dato l'ordine di tener chete le Compagnie che non sparassero, e queste stavano chete, anzi a terra sdraiate.I Carabinieri genovesi erano stati messi avanti a tutti, già un po' più giù nel pendio verso il nemico: dietro di loro la 8° e la 7° Compagnia giacevano stese in cacciatori a quadriglie, e così era formata da loro la prima linea. La 6° e la 5° Compagnia sul ciglio del colle, sdraiate anch'esse in ordine aperto formavano la seconda linea; tutto il battaglione di Bixio, e cioè la 4°, la 3° e la 2° Compagnia, stavano in riserva sul versante dalla parte di Vita, ma solo pochi passi dal ciglio; più in giù, quasi alla falda, era rimasta la 1° Compagnia, quella di Bixio, il quale la aveva lasciata al suo luogotenente Dezza. Egli si era portato avanti forse per trovarsi sempre vicino al Generale, per non perderlo di vista mai, quasi che in caso di sconfitta si sentisse di salvarlo, o, non lo potendo, volesse morirgli al lato.Passavano le ore, e Garibaldi, che di solito preferiva assalire, non si risolveva all'attacco.Sperava forse che nelle file nemiche si destasse qualche sentimento italiano? Chi lo sa! Ma si può crederlo perché aveva ordinato di portar nel punto più alto la bandiera tricolore, e di farla sventolare. Ad ogni modo sembrava che avesse risolto cavallerescamente di lasciar ai Napolitani il vanto d'assalir primi.E verso il tocco squillò una tromba napolitana. Uno dei garibaldini, certo Natale Imperatori della 6° Compagnia Carini, che conosceva quella sonata, disse subito: "Vengono i Cacciatori!"E difatti, contro il grigio e il verde del suolo, furono viste prima come un formicolio, poi più nette, spiccate le divise cilestrine discendere alla sfilata, agili, giù pei terrazzi del loro colle, serpeggiando tra i ciuffi di fichi d'India. Erano addirittura due Compagnie. Giunti all'ultima falda del colle, s'avanzarono pel po' di spazio che faceva la valletta, e cominciarono i loro fuochi di sotto in su contro i garibaldini della prima fronte. Questi erano i Genovesi. Chi li poteva tenere che non rispondessero al fuoco delle quadriglie? Pure durarono un pezzo senza sparare e peritissimi al tiro giudicavano impediti i nemici le cui palle passavano miagolando molto in alto: ma alla fine cominciarono anch'essi con le loro carabine di pochissimo scoppio, ma secco, acuto, e le palle andavano al segno. Allora quei Cacciatori si arrestarono a scambiare ancora pochi tiri, così da fermi, coi Genovesi. Ma subito le trombe garibaldine suonarono l'attacco alla baionetta. Bisognava levar le Compagnie dalla tentazione di sprecar di lassù le munizioni, perché i più non avevano che dieci cartucce, e i fucili non portavano più che a quattrocento metri. Le Compagnie, a quegli squilli, balzarono ritte come sorgessero dalla terra improvvise, e si rovesciarono giù dal colle una dietro l'altra, correndo scaglionate oblique giù per la china, ma mirabilmente composte, poi s'allargarono in ordine sparso, quando i cannoni napolitani cominciarono a trarre granate.Lo narrarono poi molti che stavano allora nelle file nemiche. Quel movimento, fatto così di lancio e con sicurezza da veterani, produsse in loro un effetto indicibile. Ma non si sgomentarono. E fu bene, perché per la loro mirabile resistenza meritarono d'esser lodati nell'ordine di Garibaldi il giorno appresso; e la lode poté forse sugli animi più della stessa vittoria riportata da chi li lodava.Così il bel fatto d'arme era cominciato.In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate via, lasciando esse alcuni caduti in quel fondo, bei giovani d'Abruzzo, di Calabria, di chi sa quale di quelle terre delle rivoluzioni gloriose e infelici. Sul berretto elegante a barchetta, portavano il numero 8 - 8° Cacciatori! - E indossavano delle divise di tela cilestrina, giubba corta, elegante, su cui s'incrociavano pittorescamente le corregge degli zaini e della fiaschetta a zucca, schiacciata e foderata di cuoio. La loro carabina, pei tempi d'allora, era perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi!Come fanno stringere il cuore l'eleganza delle divise indosso ai morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciono non hanno più né vita né nome, né paese né nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro sangue, né l'erba su cui spirarono l'ultimo fiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti. Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perché vi si poteva patire, morire, per far trionfare un'idea, più che perché vi si potesse provar la gioia e la gloria di vincere.Rispettate i nemici, rispettate i feriti! - gridò Francesco Montanari di Mirandola, caduto per grave ferita su quel colle - sono italiani anch'essi! -E la sua faccia severa, quasi dura e in quel momento contratta dal dolore, parve trasfigurata da quella sua sublime pietà.A che ormai descrivere il fatto d'armi di Calatafimi?Le battaglie, da quelle che descrisse Omero all'ultima della storia moderna, si somigliano tutte. Sono furia d'uomini contro uomini che s'avventano gli uni agli altri, dandosi a vicenda da vicino o da lontano la morte, con più o meno arte, secondo i tempi. Cortesi fin che si vuole, i combattenti son sempre ancor poco diversi "dagli uomini sul vinto orso rissosi."Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioni, ammirando fatti che in sé sono atroci, e ci esaltiamo e chiamiamo magnanimo tanto chi dà come chi riceve la morte in campo. Ci pare sovrumano il maresciallo Ney a Vaterloo, quando nella tragica ora della sconfitta già imminente, grida con voluttà disperata che vorrebbe tutti nel petto i proiettili dei cannoni inglesi rombanti nell'aria. Sublime ci pare quell'oscuro lanciere francese, che là, in una delle ultime cariche di cavalleria, gittò la sua lancia in mezzo a un quadrato inglese, per andare a raccattarla come per gioco in quel quadrato; e spronò e balzò e cadde egli e il suo cavallo sulle siepi di baionette, schiacciando altri e morendo. Chi mai ci pare più grande di lord Cardigan, quando ricevuto l'ordine di assalire la batterie russe a Balaclava, sa che vi morrà egli, l'ultimo di sua schiatta, forse con tutti i suoi seicento cavalieri; ma snuda la spada e gridando: "Avanti, ultimo dei Cardigan!" galoppa alla morte come se volasse al cielo?Ma quel Montanari e quel suo grido, son ben più degni di storia.Quello di Calatafimi fu fatto d'arme che appena potrebbe stare come frammento episodico di una di quelle grandi battaglie. Eppur e per l'importanza e per l'influenza sua sulla vita della nostra nazione, conta quanto e forse più di ciascuna d'esse per le altre. E il Generale? L'arte di Garibaldi, mirabile già nell'aver saputo creare in tutti i suoi un sentimento profondo, sicuro, superbo della loro situazione, nei tre giorni avanti; in quello del fatto d'armi, stette tutta nell'averseli tenuti stretti nel pugno come un fascio di folgori, fino al momento in cui, non essendo più possibile in nessun modo lasciare il campo non vincitori, poté abbandonar ognuno al comando di sé stesso, certo egli che da quel momento si sarebbero svolte le più recondite virtù e le forze e l'ingegno d'ognuno, dalla calma pontificale di Sirtori al furore di Bixio, all'impeto geniale di Schiaffino, all'audacia di Edoardo Herter, d'Achille Sacchi, di cento altri, e, si può dire di tutti, perché un codardo che è uno, in quell'ora, in quel luogo, non ci poté più essere. E il merito di questo miracolo fu tutto del Generale. L'anima sua era entrata, era presente in tutte quelle anime, fosse egli in qual si volesse punto del campo. Due momenti della pugna furono esclusivamente suoi: uno, quello di quando Bixio, che era Bixio, osò domandargli alla maniera sua se non gli paresse il caso di battere in ritirata, ed egli rispose che là si faceva l'Italia o si moriva: l'altro, quello dell'ultimo assalto, quando tutti rifiniti boccheggiavano sotto il ciglio del colle, su cui si erano ridotte via via risalendo le schiere nemiche scacciate da terrazzo a terrazzo in su. Là disperavano tutti, non egli, che parlando pacato andava per le file come un padre con gli occhi rilucenti di lagrime: "Riposate, figliuoli, poi un ultimo sforzo e abbiamo vinto." Fu in quel momento che lo colpì nella spalla destra uno dei sassi che i borbonici facevano rotolar giù; ma egli non degnò mostrare d'essersene accorto, e continuò a mantenere quell'aria sicura che creava la sicurezza altrui, in quel quarto d'ora in cui, se i borbonici avessero osato rovesciarsi giù alla baionetta, in più di duemila quanti erano ancora, la rotta era sua. Essi invece, raccolti lassù, urlavano: 'Viva lo Re'; rotolavano sassi, e tiravano schioppettate a chi si faceva su dal ciglio a guardare. Uno di questi fu Edoardo Herter da Treviso, medico di 26 anni. Pareva una damigella bionda vestita da uomo, tanto aveva esile l'aspetto, ma i suoi muscoli erano d'acciaio. Parlò con Garibaldi un istante, poi si lanciò su per un greppo.'Ah piangerà tua madre!'fu cantato di lui, e appena su, cadde riverso colpito nel petto a morte.In quel momento l'artiglieria garibaldina tuonò di giù dalla strada, dove alla fine aveva potuto mettersi a tiro, e un suo proiettile andò a cadere tra i regii. Fu come il segno della ripresa, perché poco appresso si fece come un subbuglio, e fu gridato: "La bandiera, la bandiera in pericolo!" E la bella bandiera di Valparaiso fu veduta salire, come se andasse da sé, trascinando dietro ai lembi delle sue pieghe quanti vi s'affollavano presso.Passata dalle mani di Giuseppe Campo a Elia, a Menotti, a Schiaffino, ora Schiaffino la portava all'ultima prova. E giù, staccati dalla loro fronte, uno stormo di napolitani corsero per pigliarsela. Allora le si formò un viluppo intorno, cozzo breve, fiero, feroce, vera mischia; e la bandiera sparì, lasciando uno dei suoi nastri nel pugno di Gian Maria Damiani. E Schiaffino, il superbo nocchiero del Lombardo, giacque là morto.E' questo il momento d'annunziarmi una pubblica sciagura? - gridò Garibaldi a chi gli dava notizia di quella morte. Ma proprio in quel momento, in un altro punto della battaglia scoppiava un urlo di gioia... Un cannone era preso. Fumigava ancora la sua gola dell'ultimo colpo sparato contro quelli che vi s'erano lanciati su primi, primo Achille Sacchi da Pavia, giovanetto di diciassett'anni, che cadde già con le mani sulla volata di quel pezzo e giacque morto."Ancora uno sforzo!" e lo sforzo era fatto. Erano balzati su fino i moribondi; l'ultimo assalto alla baionetta fu veramente meraviglioso. I napolitani non vi ressero, si volsero, rovinarono via.Non però tutti in fuga. Avevano cominciato i Cacciatori e i Cacciatori finivano. Mentre la fanteria e i Carabinieri napolitani si ritiravano confusi giù pel declivio del colle perduto; quei Cacciatori, come stessero in un campo a istruirsi, facevano le loro fucilate a quadriglie, allontanandosi lentamente. Fin Garibaldi stette a mirarli un pezzo, in quelle loro belle mosse; ma poi diede ordine di caricarli a una delle Compagnie che appena conquistato il colle, già si erano quasi riordinate intorno ai loro ufficiali. Corse la 6°, Carini. E quell'ultimo strascico del fatto d'arme fu presto levato. Tutta la colonna borbonica si sprofondò nel vallone, sparì un momento, poi ricomparve di là. Saliva l'erta per Calatafimi. La chiudeva un manipolo di cavalli, forse mezzo squadrone, che durante il combattimento s'era tenuto giù sullo stradale, certo aspettando di potersi gettare sui nemici vinti a sciabolarli. Invece ora proteggeva la ritirata ai suoi. Dal campo di battaglia fu vista quella gente serpeggiare su per l'erta lunga, stendersi e di nuovo sparire poi più su, a poco a poco, in Calatafimi.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 8:01 PM,
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Il messaggio dei ragazzi di Locri al meeting internazionale degli studenti sulla legalità di Lamezia
giovedì 23 marzo 2006

Oggi è finalmente primavera!
postato da Anonimo; alle 7:05 PM,
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Allo studio la "rottamazione" degli ecomostri in Calabria.

L'edilizia selvaggia avrà vita difficile in Calabria. L'assessore all'Urbanistica, Michelangelo Tripodi, dichiara, infatti, guerra agli ecomostri con un progetto che sarà presentato a Roma venerdì prossimo, 24 marzo, alle ore 11,15, presso la sede della delegazione della Regione Calabria. "Basta con le ferite al paesaggio - ha affermato l'assessore Tripodi - e con la distruzione del territorio calabrese, la cui tutela può garantire un reddito continuo per vaste fasce di popolazione. Basta con la criminalità che occupa fisicamente gli angoli più belli della nostra regione. Tagliare le gambe alla speculazione significa ripristinare le condizioni di rispetto della legalità e di un virtuoso circuito economico". Una volta definito scientificamente il concetto di "ecomostro" la Regione avvierà la bonifica e la rottamazione degli scempi edilizi. Per iniziare sono già stati stanziati 5 milioni di euro, oltre al finanziamento (con 380.000 euro) del progetto "Paesaggio & Identità" che servirà allo studio ed alla mappatura degli ecomostri. Inoltre, l'archivio fotografico dei paesaggi calabresi permetterà una migliore progettazione degli interventi da parte degli enti locali per la tutela e la valorizzazione del territorio. Alla conferenza stampa di Roma, oltre all'assessore Michelangelo Tripodi, parteciperanno anche i membri del gruppo di lavoro del progetto "Paesaggi & Identità" Renato Nicolini dell'Università Mediterranea, Osvaldo Pieroni dell'Università della Calabria, Angela Nasso della Società Avventura Urbana, Rosaria Amantea, dirigente del dipartimento regionale dell'Urbanistica e Governo del Territorio.
postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 2:23 PM,
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La storia dei Mille - Capitolo XXVI
mercoledì 22 marzo 2006
Durante una breve sosta, che fu fatta fare alla colonna, passò l'ordine di mandar la bandiera al centro della 7° Compagnia, quella del Cairoli. Da Marsala fin là, quella bandiera l'aveva custodita la 6° del Carini. E la portava Giuseppe Campo palermitano, uno che nell'ottobre avanti aveva tentato la rivoluzione a Bagheria presso Palermo, e che lasciato quasi solo era fuggito dall'isola a Genova. Ma ora tornava portabandiera dei Mille. Egli dunque con sei militi della 6° andò al centro della 7° salutato da questa con molto onore. E allora alla bandiera fu tolto per la prima volta l'incerato da Stefano Gatti mantovano. Sfavillarono al sole da una parte del drappo, ricchissimi nei tre colori, emblemi d'argento e d'oro che figuravano catene infrante e cannoni ed armi d'ogni sorta, con su un'Italia, in forma d'una bellissima donna trionfante colla corona turrita. E dall'altra parte, a lettere romane trapunte in oro, spiccava questa leggenda:
A GIUSEPPE GARIBALDIGLI ITALIANI RESIDENTI A VALPARAISO1855.
Su tre grandi nastri pendenti dalla cima dell'asta tutto bullettine d'oro, brillavano pure d'oro tre parole che allora facevano sospirare come roba da sogni impossibili ad avverarsi, tre cose che ora perché si hanno pare siano sempre esistite: 'Indipendenza, Unità, Libertà'. Allora volevano esprimere semplicemente delle speranze e dei voti, ma dicevano insieme che i donatori di quella bandiera, in quelle terre d'America da dove veniva, tra i nativi e gli stranieri, sentivano più amari che in Italia il rammarico, la vergogna, il danno di non avere un nome patrio come gli inglesi, i francesi, gli spagnuoli, tutti gli europei emigrati come loro, pur sentendosi, da lavoratori, pari e forse migliori. Ciò forse avevano voluto significare a Garibaldi, mentre egli dolente era passato pei porti del Pacifico: ed egli ora in quell'angusta valletta siciliana, tra gente nata e tenuta nell'ignoranza dell'esistenza d'un'Italia, sventolava quella bandiera e gettava le sorti della nazione.Fatto un altro po' di cammino, la colonna giungeva a Vita, piccolo borgo, case rustiche, molte catapecchie, una chiesa. Parecchi di quelli che posarono l'occhio su quella chiesa, non immaginarono di certo che la sera di quel giorno vi sarebbero stati portati dentro feriti, a patire, a veder morire, a morire. Faceva brutto senso veder la gente di quel borgo fuggire a gruppi, a famiglie intere, trascinare i vecchi e pigliare i monti, carica di masserizie, mandando lamenti. Pareva che fuggissero a un'invasione di barbari. Ma quella gente sapeva cosa c'era là vicino e ricordava eccidii recenti. La colonna traversò il borgo, e poco distante fece alto.Passò Garibaldi frettoloso; domandò se le Compagnie avessero mangiato; se no, mangiassero pure. Ma che cosa? Senza scomporre troppo gli ordini, e anche ridendo giocondamente, chi volle si adagiò, e si misero tutti a sbocconcellare il loro pane: molti sbrancarono alquanto in certi piccoli campi di fave lì ai lati della via, e con quel companatico fecero il loro pasto.Allora furono viste alcune Guide tornar trottando per lo stradale che si stendeva innanzi. Tra quelle il sessagenario Alessandro Fasola pareva ringiovanito. Poi fu un correre di cavalli dal luogo dove stava Garibaldi alle Compagnie, e subito s'udirono due squilli di tromba. Tutti a posto e via come stormi, pigliarono quasi a volo un colle a destra brullo, ronchioso, arso dal sole. Vi si piantarono in cima ordinati.E di lassù, oltre una breve convalle, forse a duemila metri, videro su di un altro colle rimpetto schierato il nemico. Era un balenio d'armi che coronava la vetta gran tratto; due macchie scure parevano due cannoni; certe linee nette profilate nel fianco del colle facevano indovinare dei terrazzi sostenuti forse da muri a secco; filiere di fichi d'India rotte qua e là si spandevano dal ciglio d'alcuni di quei terrazzi; forse nascondevano delle linee di soldati. Su di un balzo del colle sorgeva una casetta; pochi alberi grami lassù; in molti punti pareva la roccia nuda.Di là da quel colle facevano sfondo alti monti. Grigio, con aspetto più di rovina che d'abitato, si vedeva lontano in alto, a pie' d'un castello, un gruppo grande di case, che non si sapeva ancora chiamare Calatafimi. Nelle gole dei monti a sinistra formicolavano turbe di gente; le squadre partite da Salemi erano anch'esse lassù; ogni tanto vi scoppiavano delle grida.E quelli dall'altra parte, i napolitani, videro anch'essi e lo narrarono poi per anni. Videro quella linea che s'era formata rimpetto a loro con movimenti non soliti tra gli insorti, rotta a tratti da macchie rosse. E stupirono. Non capivano cosa volessero dire, o dubitavano che quei rossi fossero casacche di galeotti fuggiti da non sapevano quale bagno. I soldati ignoravano che fosse là Garibaldi, ma s'accorgevano d'essere dinanzi a gente che doveva sapere star in battaglia.Mancava poco al mezzogiorno.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 7:41 PM,
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Finalmente. E ora la Calabria chiede chiarezza

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 2:57 PM,
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Mi passa per la testa
lunedì 20 marzo 2006

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 1:51 PM,
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Il destino di Saline Joniche per lo sviluppo dell'Area Grecanica
sabato 18 marzo 2006
Vincenzo Malacrinò
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 8:43 PM,
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Montebello aderisce al protocollo della legalità con la rosa dei componenti monca
giovedì 16 marzo 2006

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Nomina scrutatori si riunisce domani la Commissione Elettorale

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 2:28 PM,
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Mi passa per la testa
martedì 14 marzo 2006

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 12:02 PM,
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La nuova legge elettorale non piace alla chiesa calabrese
lunedì 13 marzo 2006

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:04 PM,
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Risposta al commentatore anonimo
sabato 11 marzo 2006
Caro lettore,
I Montebellesi sono gente perbene.
Il senso civico di noi Montebellesi potrà pure essere basso, ma ti ricordiamo che il senso civico non è qualità insita alla nascita in ognuno di noi, non nasce dal nulla, non è dono della natura. Al senso civico occorre essere educati dalle istituzioni, dalla società civile, da chi al senso civico è stato educato prima di noi. Il senso civico è coseguenza di un processo di affinamento e perchè nelle generazioni future sia elevato è necessario instaurare e seguire un percorso virtuoso. E cosa fa chi "vota l'amico dell'amico" al fine di ottenerne favori, o chi, come te, ammette "non mi frega più" per dare inizio a tale percorso? E' partendo da questi presupposti, che è nato Montebello Ionico Blog News. L'unico scopo che questo Blog si prefigge, e che per altro sembra stia raggiungendo, è di far discutere la gente sui problemi reali del territorio, di dare alla gente comune la possibilità di conscere i problemi, di rendersi responsabile, di affinare il senso critico, di discutere, contribuendo così all'obiettivo di giungere alla diffusione di quel senso civico che è attributo fondamentale del vivere civile. A noi frega ancora di tutto, noi crediamo in un cambiamento e, bene o male, cerchiamo di fare quanto è nelle nostre possibilità per cercare di promuoverlo. E' per questo motivo che ti chiediamo di rinunciare alla rassegnazione che traspare dal tuo commento, di batterti, di essere partecipe. La rassegnazione non porta a nulla, sono le grandi battaglie che portano ai grandi cambiamenti.Infine sperando che tu possa cambiare idea e continuare ad essere un nostro lettore attivo ti porgiamo i più cordiali saluti.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:56 PM,
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Influenza aviaria: non ci sono casi sul territorio comunale
venerdì 10 marzo 2006
L’Amministrazione al fine di evitare che la popolazione, aggredita da informazioni che potrebbero generare preoccupazione e disorientamento sulle modalità comportamentali,
IMFORMA
che, nello svolgimento dell’attività di prevenzione , promossa da questo Comune unitamente al Servizio Veterinario dell’ASL n. 11,contro l’influenza aviaria, sono stati effettuati e continuano ad effettuarsi monitoraggi su tutto il territorio comunale.
Sino ad oggi non sono stati registrati casi di influenza aviaria su animali rinvenuti morti nel nostro territorio.
L’Amministrazione , su espressa richiesta del Servizio Veterinario dell’A.S.L. n.11 , nell’ambito dell’attività di prevenzione e controllo , procederà al censimento di tutti gli allevamenti di pollame da cortile .
SI AVVERTE
OCHE — ANATRE — PAVONCELLE — GABBIANI — E CIGNI.
Le specie non interessate sono:
PICCIONI - PASSERI - STORNI.
Nel caso si dovessero riscontrare animali sensibili, ammalati o morti, NON AVVICINARSI E NON TOCCARLI, occorre, informare le autorità preposte:
1) Servizio Veterinario dell’A.S.L, di Reggio Calabria dalle ere 7,30 alle ore 12,00 da lunedì a venerdì telefonare al n. 0965/347469- 84 . fax n. 0965 347486;
Martedì e giovedì anche dalle ore 15,00 alle ore 18.30 telefonare al n. 0965/ 347469- 84 in caso di necessità e qualunque orario telefonare al n.. n°3388344576 e 330799341;
2) Vigili del Fuoco;
3) Guardie Forestali;
4) Vigili Urbani e Forza Pubblica in genere.
Nel caso in cui vengono trovati morti uccelli non sensibili all’influenza aviaria va informata l’Autorità Comunale
AVVERTENZE PER GLI ALLEVATORI DI GALLINE E POLLI AL CHIUSO
EVITARE DI DISPERDERE ALIMENTI FUORI DAI CAPANNONI AL FINE DI NON ATTIRARE LA PRESENZA DI UCCELLI SELVATICI;
NON CONSENTIRE L’INGRESSO IN ALLEVAMENTO A PERSONE NON ADDETTI ALL’ATTIVITÀ ;
NON CONSENTIRE L’INGRESSO IN ALLEVAMENTO A CANI E GATTI;
AVVERTIRE l’AUTORITÀ’ VETERINARIA NELL’EVENTUALITÀ SI DOVESSERO VERIFICARE SEGNI DI MALESSERE NEL POLLAME O DI MORTALITÀ;
RISPETTARE SEVERAMENTE IL REGIME DEL CHIUSO.
AVVERTENZE PER GLI ALLEVATORI DI POLLAME DA CORTILE
IMPEDIRE PER QUANTO POSSIBILE CHE IL POLLAME POSSA SPAZIARE IN TUTTA LIBERTA’;
RESTRINGERE I RICOVERI, PROTEGGENDOLI CON RETE ANTI PASSERO;
UTILIZZARE PER ABBEVERAGGIO ACQUA NON ESPOSTA ALL’ESTERNO; -
AVVERTIRE L’AUTORITA’VETERINARIA NELL’EVENTUALITA’ SI DOVESSERO VERIFICARE SEGNI DI MALESSERE NEL POLLAME O DI CASI DI MORTALITA’.
SI RAPPRESENTA CHE L’INFLUENZA AVIARIA RIGUARDA SOLO UCCELLI SELVATICI E CHE NEI PAESI OVE SI SONO VERIFICATI CASI UMANI, IL CONTAGGIO È AVVENUTO PER STRETTO CONTATTO TRA UOMO E VOLATILI, DOMESTICI AMMALATI, ATTRAVERSO FECI E SECREZIONI.
LA CARNE DI POLLAME VENDUTA NEI PUBBLICI ESERCIZI È CONTROLLATA ED ETICHETTATA QUINDI SICURA.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:12 PM,
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La storia dei Mille - Capitolo XXV
Da Palermo, sin dall'alba del 6, era partita una colonna comandata dal generale Landi, vecchio di settant'anni, promosso di fresco a quel grado. Da soldato egli aveva combattuto contro le rivoluzioni siciliane, sin da quella del 1820, ed era venuto su grado grado in quella milizia stagnante, che sentiva d'essere mantenuta più per assicurare il Re contro i sudditi che per difendere il Regno. Questo se ne stava infatti sicuro, coperto com'era dallo Stato pontificio e protetto dal mare. Quel Landi era un uomo pio. In marcia si era fermato a sentir messa a Monreale, per santificare la domenica, proprio quella domenica in cui Garibaldi con la spedizione faceva il suo primo giorno di mare. Poi, continuando la sua via molto adagio, andando in carrozza alla testa della sua colonna, il 12 aveva fatto sosta in Alcamo. Di là partito la notte per Calatafimi, v'era giunto la mattina del 13, appunto mentre Garibaldi saliva a Salemi. Da Calatafimi aveva scritto lettere dogliose al Comandante in capo dell'isola, annunziando che prima di marciar su Salemi, dove sapeva trovarsi una banda di 'gente raccogliticcia', voleva aspettare un battaglione del 10° di linea che gli avevano promesso. Ignorava ancora lo sbarco di Garibaldi, ignorava che quelle genti raccogliticce erano i Mille con Garibaldi in persona. Ma, il 14 sapeva già qualche cosa di più, e scrivendo parlava di 'emigrati sbarcati'. Si proponeva d'andare il 15 ad attaccarli. Poi risolse d'aspettar a Calatafimi, "posizione tutta militare, molto vantaggiosa all'offensiva ed alla difensiva ed essenzialmente necessaria ad impedire che le bande si scaricassero su Palermo da quel lato della Consolare". E il 15, fermo nel suo proposito, scriveva che "tentare un assalto a Salemi sarebbe un'imprudenza ed un avventurare la colonna fra la imboscata nemica." Mostrava dunque di ignorare il numero degli avversari ma di temerli: e veramente spie la Sicilia non ne diede a lui allora, né ad altri dopo; però egli li chiamava già 'Garibaldesi'. Tuttavia non nominava Garibaldi quasi che a scriver quel nome temesse di vedersi apparir lì innanzi il terribile uomo. Forse ripensando al passato, rammentava che quel giorno stesso cadeva l'anniversario di due grandi fatti: il 15 maggio del 1848, re Ferdinando spergiuro aveva fatta far la strage nelle vie di Napoli, chiuso il Parlamento, tradita la nazione; il 15 maggio del 1849, oppressa la rivoluzione in tutta la Sicilia, il generale Filangeri era entrato in Palermo vittorioso. E rammentando, forse quel povero Landi sperava.
*
Non si potrebbe dire se Garibaldi, pensando anche egli a quelle date, abbia aspettato quel giorno 15 come una scadenza di buon augurio. Un po' preso da certi fili era egli pure, e spesso la sua bella stella Arturo guardata da lui gli aveva fatto venir su dal cuore il consiglio buono. Comunque sia, all'alba del 15 maggio, fatto leggere alle compagnie un suo ordine del giorno che piantava nei cuori le risoluzioni supreme, mise il suo piccolo esercito in marcia.Le compagnie mossero con la sinistra in testa, e così andava innanzi alle altre la 8° bergamaschi; orgoglio di Francesco Nullo e di Francesco Cucchi, gran ricco questi che dato di suo largamente a denaro, adesso era pronto a dar l'anima. Ma i carabinieri genovesi la precedevano, e le guide erano già assai più oltre di questi. Discendeva quella gente da Salemi per le giravolte che fa la via calandosi nella valle; e Garibaldi, fermo ancora appena fuor da Salemi lassù, a quei che giunti a mezzo la china si volgevano a guardarlo, pareva librato nell'aria. Il popolo della cittadetta affollava il ciglio del monte attorno alle mura, e gridava a modo suo gli augurii a chi se n'andava... Certamente quello sarebbe stato giorno di battaglia, e molti di quegli uomini che partivano non avrebbero veduto andar sotto quel sole che nasceva.Coi Mille camminavano le squadre. Ed essi non già più così, ma le chiamavano 'Picciotti', dilettandosi in questo nome paesano che pareva l'espressione del confidente abbandono con cui quegli uomini si erano messi nelle mani di Garibaldi. Per vezzo chiamavano 'Picciotto' qualcuno delle compagnie che avesse tipo più di meridionale: carissimi pel gran valore militare, ma dolci a ricordare anche per questa cosa da nulla, Ferdinando Secondi da Dresano studente di legge e Giuseppe Sisti da Pasturago studente di matematica, della compagnia Cairoli. Parevano proprio nati dalla più bella gente aristocratica dell'isola. Altri d'altre compagnie si erano fin vestiti da 'picciotti'; bellissimo tra tutti Francesco Margarita da Cuggiono che col berretto frigio nero, con la giacca mezza fatta di peli e cosciali pure fatti di pelle, pareva un tipo di baronetto da star bene in uno di quei feudi là intorno. Avevano smesso i panni di gala e i cappelli a cilindro, alcuni che s'erano imbarcati a Genova forse appena usciti dal teatro o da qualche salotto, e anch'essi vestivano alla siciliana.Dal capo alla coda della colonna, correva come un fluido che fondeva sempre più in un sentimento di forza e d'allegrezza tutti quegli animi; e via via che la colonna avanzava, pareva che ognuno fiutasse nell'aria la misteriosa presenza del nemico. A un certo punto, si ripiegò sulla colonna un drappello di uomini che scendevano da certi pagliai fuori di mano nella campagna. Parevano irati.Erano quelli della mezza squadra della Compagnia Bixio, che andati agli avamposti da quarantott'ore, erano stati via sotto la pioggia e fin senza pane. Raccontavano che poco avanti era capitato a trovarli lo stesso Bixio, e che li aveva assai bruscamente ripresi, come se avessero avuto qualche gran torto. Ma essi, pazienti, da quel terribile che non mangiava, non dormiva, tempestava giorno e notte non lasciando quiete neppur le pietre, si erano lasciati dir tutto; e ora lieti di ricongiungersi ai compagni, vi portarono in mezzo la gran notizia, Sì! Il nemico doveva essere, anzi era certo non lontano, già in posizione. Dunque tra poco la battaglia.E intanto si vedevano le squadre dei 'Picciotti' svoltare per le vie traverse, anche i cinquanta o sessanta che andavano a cavallo, e allontanarsi, pigliare i monti. Dove andavano? Nessuno ci capiva nulla.
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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 3:01 PM,
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"Incontriamoci" a Reggio Calabria con Romano Prodi
martedì 7 marzo 2006

postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 7:28 PM,
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Presentate le liste - Ecco i candidati
postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 12:53 PM,
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Sintesi del programma di governo di Romano Prodi
venerdì 3 marzo 2006

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postato da Bernardino F.L. Cardenas; alle 10:17 PM,
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Le avventure dello Zar Loris, il Diabolico
giovedì 2 marzo 2006

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postato da Anonimo; alle 8:55 PM,
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